I discepoli sono rimasti sconvolti prima dalla passione e morte del Signore, poi dalle donne che annunciano loro di aver visto il Maestro risorto (cf Lc 24,9-11.22). Per timore dei Giudei si sono barricati in casa, si sono chiusi nel loro dolore e nella loro incredulità (cf Mc 16,9-13). E Gesù risorto si fa presente proprio lì, va in aiuto alla loro debolezza (cf Rm 8,26). Non si scandalizza delle nostre paure, delle nostre barricate né della poca fede e dà sempre a tutti la possibilità di incontrarlo, sta in mezzo a noi come un giorno «stette in mezzo» ai discepoli, dona la pace, si fa riconoscere: «mostrò loro le mani e il fianco».
E proprio a quei discepoli paurosi che lo hanno lasciato solo nella passione, proprio a noi, dopo duemila anni ancora con le nostre paure e la poca fede, affida la sua stessa missione: «Come il Padre ha mandato me, anche io mando voi». La fiducia di Dio in noi è senza limiti, proprio come la sua misericordia che sempre tende la mano ai peccatori (Mt 18,21-22). «Egli sa di che siamo plasmati, ricorda che noi siamo polvere» (Sal 102,14), eppure mette nelle nostre mani il suo stesso amore, il suo perdono: «A coloro a cui perdonerete i peccati, saranno perdonati». Sì, gli apostoli e i loro successori, devono amministrare la misericordia anche nel sacramento della penitenza, ma tutti i cristiani sono chiamati a perdonare, ad essere misericordiosi come il Padre (cf Lc 6,36-38), a dare a tutti la possibilità di ricominciare, di rialzarsi, di riprendere il cammino.
Quella sera non c’era Tommaso e non c’eravamo nemmeno noi. L’apostolo vuole vedere il Signore, avere prove certe che il Crocifisso è risorto: «Se non vedo nelle sue mani il segno dei chiodi… io non credo». Egli «ritiene che segni qualificanti dell’identità di Gesù siano ora soprattutto le piaghe, nelle quali si rivela fino a che punto Egli ci ha amati» (Benedetto XVI).
Che bello il racconto di Giovanni! Forse noi ci scandalizziamo delle parole di Tommaso, invece Gesù va incontro ai dubbi del discepolo – conosce la nostra fatica nel credere, rispetta con pazienza i nostri tempi – e gli mostra le piaghe, lo invita a toccarle, a fare il suo personale percorso di fede. Infatti, la fede contempla il dubbio, la ricerca, se no cade nel fideismo, in un “credere e basta” che non permette di entrare nel mistero dell’amore e non dona nulla alla nostra vita quotidiana. A che serve credere se non ha nessuna incidenza sul nostro vivere?
Sì, la fede è un dono che riceviamo da altri, ma poi deve diventare nostra, deve essere personale e questo può essere faticoso, ma è proprio nella fatica del cammino, nella ricerca scaturita da un dubbio che possiamo appropriarci di questo dono e farlo nostro, fino a dire con Tommaso: mio Signore e mio Dio! Fino ad esprimere cioè la piena adesione a lui, fino a consegnargli la nostra vita, a dargli tutto ciò che siamo. Noi pensiamo che per presentarci davanti a Dio dobbiamo essere perfetti e nascondiamo i nostri dubbi, le nostre miserie, i nostri peccati. Ricordiamoci che la Messa inizia con l’atto penitenziale: la Chiesa ci fa mettere davanti al Signore, riconoscendo le nostre miserie perché solo così possiamo lasciarci rigenerare dalla sua misericordia.
Oggi, come quella sera a Tommaso, Gesù mostra a tutti le sue piaghe da toccare. Sono quelle che lui ha nei poveri e bisognosi nei quali è presente (cf Mt 25,34-36). Ciò indica che la via della carità, del farsi prossimo, è la via privilegiata per riconoscere Gesù risorto, vivo oggi in mezzo a noi.
«Concedi a noi cristiani – dice il Papa nell’enciclica Fratelli tutti – di vivere il Vangelo e di riconoscere Cristo in ogni essere umano, per vederlo crocifisso nelle angosce degli abbandonati e dei dimenticati di questo mondo e risorto in ogni fratello che si rialza in piedi».
don Alfonso Lettieri