L’omelia di Natale del Vescovo Antonio Di Donna

E’ difficile prendere la parola in questo Natale: il Natale della crisi sanitaria, ma non solo; il Natale della crisi economico e sociale, e perfino della crisi ecclesiale. Una crisi che ha colpito il mondo intero: un flagello che continua ad essere un banco di prova non indifferente.

E’ difficile prendere la parola, si rischia di dire cose scontate, secondo la retorica di moda, che indulge a un ottimismo ingenuo, del tipo “andrà tutto bene”, oppure, al contrario, ad un pessimismo che accresce le nostre paure, e le paure non cambiano niente e nessuno.

E allora? Che cosa ci si aspetta che il vescovo possa dire in questo Natale 2020? Che cosa ci si aspetta che la Chiesa possa dire in questo tempo di pandemia?

 

Molti si aspettano dalla Chiesa, soprattutto che compia opere di carità, di vicinanza alla gente. E lo abbiamo fatto, e lo stiamo facendo! Come non ricordare qui l’opera grande della Caritas diocesana, delle Caritas parrocchiali, dei volontari dei tanti gruppi, anche non ecclesiali, che in questi mesi sono veri e propri eroi, e stanno scrivendo una pagina che resterà nella storia?

Ma, la Chiesa, è solo questo? E’ solo questo il suo compito in questo tempo di pandemia?

 

Altri, soprattutto uomini delle Istituzioni, chiedono in particolare a noi vescovi, ai sacerdoti e alla Chiesa in genere, di supportare l’azione del Governo, nell’invitare i fedeli ad essere responsabili, ad adottare le misure di sicurezza … E anche questo abbiamo fatto, e stiamo facendo: addirittura accettando, come Chiesa, di non celebrare nei mesi del primo lockdown la Pasqua con la presenza del Popolo; e anche in questo Natale, anticipando la Messa della notte, come abbiamo fatto ieri sera. Lo facciamo perché abbiamo a cuore la salute di tutti, e perché i cristiani sono cittadini leali, e collaborano con lo Stato quando si tratta del Bene Comune. E lo facciamo anche a rischio di sentirci rivolgere da parte di alcuni, pure nella Chiesa, l’accusa di essere una Chiesa suddita, troppo accondiscendente verso il Governo!

Eppure, anche qui mi chiedo: ma la Chiesa è solo questo, è solo questo il suo compito in questo tempo di pandemia? Vigilare sulla sicurezza, richiamare all’osservanza delle norme, fare igienizzazione …?

 

No! Cari amici, la Chiesa non è solo questo! E il suo compito in questa pandemia non può ridursi solo a un’opera di carità, certo molto necessaria; oppure a un’opera di supporto all’azione del Governo! In questo tempo di pandemia, il compito della Chiesa è soprattutto un altro: è quello di offrire un supplemento d’anima, un di più; offrire il senso, il significato di quanto sta accadendo; dare un orientamento, indicare una rotta, un orizzonte, una luce in questa notte che è scesa su di noi. Per non sprecare questa crisi: perché c’è una cosa peggiore di questa crisi, quella di sprecarla, e di non convertirla in risorsa, in occasione, in opportunità.

E questo supplemento d’anima, questa rotta, non la possono dare quelli che vorrei chiamare i nuovi sacerdoti della religione di questo tempo: i virologi, gli scienziati, il Comitato tecnico scientifico, i politici, ai quali comunque va la nostra gratitudine. Ma noi cristiani, noi Chiesa, umilmente lo diciamo, possiamo offrire un supplemento d’anima, un senso, che non viene da noi, bensì viene dalla luce di Colui che oggi è nato.

 

La grande festa del Natale del Signore offre questo supplemento d’anima, questo senso: è nel grande annuncio ascoltato poco fa dal diacono, che ha letto il brano del Vangelo secondo Luca – «oggi è nato per voi un Salvatore, che è il Cristo Signore»; ed è nella fede che professeremo tra qualche minuto nel credo, quando diremo – «per noi uomini e per la nostra salvezza discese dal cielo, e per opera dello Spirito Santo si è incarnato nel seno della Vergine Maria e si è fatto uomo».

 

E qual è il significato da cogliere nell’annuncio del Natale del Signore per questo tempo sospeso e surreale che stiamo vivendo?

 

Anzitutto, si tratta di un Natale “diverso”. Una parola usata, e abusata, in questi giorni: un Natale che ci aiuta ad acquistare maggiore coscienza della nostra fragilità, del nostro limite, della nostra povertà. Questa pandemia ci ha spogliati, messi a nudo: pensavamo di essere quasi onnipotenti, ed è bastato un piccolo “coso”, 600 volte più piccolo del diametro di un capello, per metterci in crisi; ha inferto un duro colpo a quel delirio di onnipotenza che ha preso molti di noi e ci ha fatto vivere per anni spensierati. Il Papa in quella sera memorabile del 27 marzo scorso, in una Piazza San Pietro deserta, diceva così: «La tempesta che è scesa su di noi smaschera la nostra vulnerabilità, e lascia scoperte quelle false sicurezze con cui abbiamo costruito le nostre agende, i nostri progetti, le nostre abitudini, le nostre priorità». E questo a tutti i livelli: alto, e basso; universale, e locale.

 

Stanotte, o meglio ieri sera, citavo questi versi semplici, ma veri, di una donna, una poetessa sconosciuta di periferia, delle nostre parti, Michelina Paturzo: «Questa notte (la notte di Natale) è scura scura, perché a’ brutta pandemia si è rubata l’allegria, simm tutt puveriell …». Versi semplici, ma veri: «Simm tutt puveriell …». Tanta gente pensa che questo Natale non sia Natale: qualcuno addirittura dice che bisogna cancellarlo, che dobbiamo riandare ai Natali passati, o proiettarci verso quelli che verranno! No! Io credo che c’è una Grazia in questo Natale 2020! Forse abbiamo fatto troppa attenzione nel passato alla cornice, che per noi è diventata così importante da oscurare il quadro: adesso siamo senza cornice, ma forse siamo nella condizione migliore per ricevere l’annuncio del Natale. «Simm tutt puveriell … », dice Michelina Paturzo! Siamo cioè nella condizione di povertà, quella dei pastori, di Maria, di Giuseppe, dei Magi, di quanti si accostano alla grotta per essere illuminati in questa notte che stiamo vivendo. Questa crisi ci ha spogliato: uso volutamente questa parola. Questo è un Natale di “spoliazione”, e chi conosce le Scritture sa che si tratta di una parola grande, Paolo la usa nella Lettera ai Filippesi proprio per indicare quello che stiamo celebrando, l’Incarnazione, un Dio che si è spogliato ed è diventato uno di noi: «Cristo Gesù, pur essendo di natura divina, non considerò un tesoro geloso l’essere uguale a Dio, ma “spogliò” se stesso, assumendo la condizione di servo fino alla morte, e alla morte di Croce; da ricco che era si è fatto povero per noi».

 

In tal senso questo Natale 2020 è “diverso”, cioè è più vicino al primo Natale del Signore, quello di Betlemme di duemila anni fa: nel senso di “alternativo”, come lo è stato il primo di Gesù, il vero Natale, non i nostri falsi Natale: l’anno scorso, dicevo di «natali appezzottati», falsi, perché il vero Natale è quello che presenta un modo diverso di vivere, indica un modo altro di impostare la vita personale e comunitaria. In fondo, perché Dio si è fatto uomo? Se non per indicare un modo di vivere? Per dirci “guardate a Gesù, guardate questo Bambino”? Gesù è l’uomo come Dio lo vuole, solo Dio poteva essere così: “Guardate a Lui, pensate e scegliete come Lui, vedete le cose e agite come Lui, soffrite e morite come Lui”. Gesù il volto umano di Dio, e il Natale offre questo senso e supplemento d’anima; un monito a cambiare strada, a fare inversione di marcia e imboccare un modo “altro”, alternativo di vivere.

 

In quella stessa sera del 27 marzo il Papa si rivolgeva al Signore: «Tu, o Signore, ci chiami ad accogliere questo tempo di prova come un tempo di scelte: che cosa conta e che cosa passa; di reimpostare la rotta della vita verso di Te, Signore, e verso gli altri». Reimpostare la rotta! Ecco il senso. Da troppo tempo, cari amici – uso le bellissime e profetiche parole di un filosofo cristiano del secolo scorso, Soren Kierkegaard – «la nave è in mano al cuoco di bordo e ciò che trasmette il megafono del comandante non è più la rotta da seguire, che non interessa più a nessuno, ma solo ciò che mangeremo domani». Il menù di domani, non la rotta da seguire!

Reimpostare la rotta! Anzitutto, verso di Te Signore! Lui ha il primato! La pandemia, cari amici, ha riportato a galla la verità profonda che tutte le cose sono precarie e transitorie, tutto passa: ricchezza, salute, bellezza, forza fisica. Storditi dal ritmo della vita, non facevamo caso a tutto ciò, per trarne le dovute conseguenze. Questa crisi planetaria può essere l’occasione per riscoprire che nonostante tutto c’è un punto fermo, c’è un terreno solido, c’è un punto da cui ripartire, su cui fondare la nostra vita personale e sociale.

 

In questi anni abbiamo imparato ad avere diritto a tutto e subito; abbiamo curato i nostri bisogni, molti i loro guadagni e interessi, facendo in modo che essi si dilatassero fino all’inverosimile, rifiutando di poter fare a meno di qualunque cosa, salvo di una, la più importante: dare senso, uno scopo alla vita, ritenuta invece una cosa vecchia, marginale, superflua, che non serve più.

Se volete, questo senso da dare al mondo, alla vita, chiamatelo Dio! Proprio ora, che ci sentivamo quasi immortali, onnipotenti, qualcosa ha cominciato a non funzionare. E allora bisognerebbe forse rivedere qualcosa della nostra vita, e lo dico con forza: riproporre la questione di Dio, del senso della vita della morte, e dell’oltre morte, della vita per sempre, che noi cristiani chiamiamo “vita eterna”.

Per quanto le società, soprattutto europee, si sono sforzate in questi decenni di dimenticare Dio, di metterlo ai margini, non negarlo ma renderlo irrilevante, innocuo e politicamente corretto, ricorrendo ad ogni sorta di narcotici e anestetici per addormentarci; per quanto questo sia successo, adesso noi dobbiamo constatare che è fallito quel nuovo ordine mondiale che si sarebbe dovuto costruire sulle macerie di Dio.

Reimpostare la rotta verso di Te Signore!

 

Ma, anche «reimpostare la rotta verso gli altri», ha detto il Papa. E qui c’è un’altra inversione di marcia da fare, un altro ammonimento. Questa pandemia ha mostrato che tutto è connesso: non esiste una crisi sanitaria, e poi una crisi sociale, e poi una crisi ambientale. C’è un nesso tra il virus e l’inquinamento ambientale: pensavamo di rimanere sempre esami in un mondo malato! Come era possibile credere che gli sconvolgimenti che abbiamo inferto alla terra, all’aria, al pianeta, in questi ultimi decenni, prima o poi non si sarebbero rivoltati contro di noi? Come era possibile andare avanti giulivi, orgogliosi, disinvolti, pensando di rimanere sempre sani in un mondo malato? Abbiamo costruito un sistema che non permette più al pianeta di respirare, e la natura si ribella tramite questo “folletto”, che attacca i nostri polmoni e ci uccide.

E non si può puntare solo sulla profilassi dei vaccini, se non si rimuovono le cause! E a mio parere – ma non solo, desumo questa opinione da illustri uomini di scienza – è un grave errore puntare esclusivamente sui vaccini e dimenticare che le pandemie sono drammi che non potremmo evitare anche per il futuro senza ridurre le vere cause che stanno a monte: l’inquinamento, la deforestazione della grande Amazzonia, lontana da noi, eppure così decisiva per il destino del pianeta, quel polmone verde dell’Amazzonia che stiamo saccheggiando, e chissà quanti virus erano lì depositati e avevano il loro ambiente naturale, mentre le deforestazioni provocano il loro espandersi. Le vere cause che stanno a monte: cambiamenti climatici e disastri sociali! Altrimenti, fatto questo vaccino, e speriamo al più presto, saremo in attesa del prossimo virus, Dio non voglia, e del prossimo vaccino, e la natura andrà avanti!

Il tempo si è fatto breve! E non lo dice un vescovo apocalittico, ma gli scienziati. Una donna, Giuliana Martirani, docente in pensione di geografia astronomica e universale all’Università di Napoli, profeticamente quindici anni fa, alla fine di un suo libro, “La civiltà della tenerezza”, immagina che siamo entrati negli ultimi sette giorni della storia. Lei, credente, prende il libro biblico della Genesi – il racconto della creazione: «In principio Dio creò il cielo e la terra, il primo giorno fece il sole, e fu sera e fu mattina … » – e simmetricamente immagina gli ultimi sette giorni della storia: «Nel quarto giorno degli ultimi tempi molti uomini morirono contaminati da virus coltivati in laboratorio, altri morirono per la dimenticanza imperdonabile di chiudere i depositi batteriologici preparati per la guerra». Intuizione profetica!

 

E questo non solo a livello planetario – ho citato l’Amazzonia – ma anche a livello nostro, locale: è stato assurdo, inconcepibile, cancellare la Commissione Regionale Speciale per la Terra dei Fuochi, significa che per i prossimi cinque anni non ci sarà, se non si rimedia in qualche modo, la possibilità di indagare, di monitorare le problematiche della Terra dei Fuochi. Non è che la Commissione facesse granché, però adesso viene a mancare anche il simbolo, il segno di questa attenzione: questa Commissione Regionale è cancellata perché di Terra dei Fuochi non si deve parlare, non esiste; basta, non ci facciamo del male, non ci buttiamo la zappa sui piedi! Tutto questo è assurdo, assurdo! Anche a me non piace parlare di Terra dei fuochi, è un termine che pure io vorrei cancellare, ma dobbiamo riconoscere che il problema rimane: non vuoi parlare di Terra dei fuochi, ma i problemi rimangono!

Non si parla più di bonifiche, non si parla più di roghi tossici, non si fa più di qualità dell’aria, mentre le centraline del controllo sulla qualità dell’aria, anche della nostra Acerra, anzi qui, continuano a sforare; non si parla più di tumori, di registro dei tumori, di cure, ormai si muore solo di covid, tutti i morti sono morti di covid, gli altri si possono arrangiare! Non si parla più di reati, di disastro ambientale, non si parla più di controllo dell’inceneritore, non si parla più di monitoraggio delle aziende inquinanti sul nostro territorio.

 

Vorrei rivolgervi l’augurio con le parole del Papa dell’ultima enciclica, molto bella, sorella gemella della Laudato si’. Si chiama Fratelli tutti, sulla fraternità universale, l’amicizia tra i popoli, e prende il titolo da San Francesco. Il Papa dice: «Passata la crisi sanitaria, la peggiore reazione sarebbe quella di cadere ancora di più in un febbrile consumismo». E’ il mio augurio a voi in questo strano Natale 2020, «che questa crisi non sia l’ennesimo evento storico da cui non siamo stati capaci di imparare; auguro che un così grande dolore, quello dei nostri morti, delle centinaia e migliaia di morti, non sia inutile; auguro che possiamo fare un salto di qualità verso un modo di vivere diverso». Come questo Natale, “diverso”.

Ho citato i versi di Michelina Paturzo, e lei continua: «Questa notte scura scura, perché ‘a brutta pandemia si è rubata l’allegria, simm tutt puveriell, ma dind o ‘scuro o buon Gesù cchiù lucent nasc Tu … ». E allora, buon Natale di Gesù, buon Natale del Signore, buon Natale “diverso”, cioè “alternativo”.

Auguro a me e a voi che questo sia finalmente il primo Natale “diverso” di una lunga serie – certo, non nella paura, non nella pandemia, questa o altre – ma il primo, di una lunga serie, dei Natale recuperati, come il primo della storia, quello vero, non appezzottato, falso; dopo tanto tempo, il primo, di una lunga serie, dei Natale all’insegna della povertà, dell’essenzialità, della sobrietà, appunto, come il primo, il Natale di un Dio che ha spogliato se stesso e ha preso la nostra povera natura umana.

Buon Natale del Signore. Un Natale così, “diverso”, “alternativo”.