«Il piano di Dio va sempre controcorrente: leggete le Beatitudini». Non c’è stata forse esortazione più ricorrente di questa fin dall’inizio del pontificato. Più volte l’ha ripetuta così Francesco da quell’udienza del 6 agosto 2014: «Prendete il Vangelo, il Vangelo di Matteo, capitolo quinto, all’inizio ci sono queste Beatitudini; capitolo 25, ci sono le altre. E vi farà bene leggerlo una volta, due volte, tre volte. Ma leggere questo, che è il programma di santità. Che il Signore ci dia la grazia di capire questo suo messaggio». E controcorrente adesso l’esortazione apostolica Gaudete et exsultate, che lunedì ci viene consegnata, viene certo al punto, sempre da quelle parole di Cristo che non solo le ha proclamate ma vissute.
Gandhi diceva che queste delle Beatitudini sono «le parole più alte del pensiero umano». Disarmano. Ma soprattutto disegnano un’altro modo di essere, di vivere da uomini. Prima ancora di chiedersi che cosa ci rende cristiani bisogna infatti chiedersi che cosa ci rende veramente uomini. La risposta è una sola: la santità, cioè realizzare gli insegnamenti delle Beatitudini. Nella prospettiva cristiana, questo non è possibile senza la grazia di Dio. Essa non annulla la natura umana, ma la perfeziona, come dice Tommaso d’Aquino; diventare santo significa così avvicinarsi sempre più alla perfezione per la quale la natura umana è fatta.
Se non siamo santi, non siamo pienamente uomini né pienamente cristiani, perché i santi non sono solo quelli canonizzati né supereroi o figure da immaginetta fuori dalle faccende ordinarie. San Paolo chiamava i cristiani delle diverse comunità “santi”, santi sono cioè tutti i battezzati, coloro che hanno ricevuto e accolto lo spirito di Dio e che si sentono perciò attratti verso il bene al servizio degli uomini. Si trova qui il fondamento di questa chiamata universale alla santità che il Concilio Vaticano II ha con forza riproposto nel capitolo 5 della costituzione dogmatica Lumen gentium. Un appello che resta il più necessario e il più urgente adempimento del Concilio, perché senza di esso tutti gli altri adempimenti sono impossibili o inutili.
Papa Francesco lo ha fatto proprio. «Un grande dono del Concilio Vaticano II è stato quello di aver recuperato una visione di Chiesa fondata sulla comunione, e di aver ricompreso anche il principio dell’autorità e della gerarchia in tale prospettiva – ha ricordato nell’udienza del 20 novembre del 2014 –. Questo ci ha aiutato a capire meglio che tutti i cristiani, in quanto battezzati, hanno uguale dignità davanti al Signore e sono accomunati dalla stessa vocazione, che è quella alla santità». Questa «non è perciò una prerogativa soltanto di alcuni: è un dono che viene offerto a tutti.
Ora ci domandiamo: in che cosa consiste questa vocazione universale a essere santi? E come possiamo realizzarla?». In quell’udienza aveva spiegato innanzitutto che «la santità non è qualcosa che ci procuriamo noi, che otteniamo noi con le nostre qualità e le nostre capacità. La santità è un dono, è il dono che ci fa il Signore Gesù, quando ci prende con sé e ci riveste di sé stesso, ci rende come Lui». E se la santità è la stoffa della vita cristiana le Beatitudini ne «sono la carta d’identità» aveva detto a Malmö in Svezia il 2 novembre 2016 declinandole ai tempi attuali e indicando nuove situazioni per viverle. «In queste parole c’è tutta la novità portata da Cristo, e tutta la novità di Cristo è in queste parole. In effetti, le Beatitudini sono il ritratto di Gesù, la sua forma di vita; e sono la via della vera felicità, che anche noi possiamo percorrere con la grazia che Gesù ci dona».
Questo delle Beatitudini, aveva detto ancora papa Bergoglio, «è il programma di vita che ci propone Gesù… ci dà anche altre indicazioni, un protocollo sul quale noi saremo giudicati: ‘Sono stato affamato e mi hai dato da mangiare, ero assetato e mi hai dato da bere, ero ammalato e mi hai visitato, ero in carcere e sei venuto a trovarmi’». Così «si può vivere la vita cristiana a livello di santità. Poche parole, semplici parole, ma pratiche a tutti, perché il cristianesimo è una religione pratica: non è per pensarla, è per praticarla, per farla». Se si accolgono le Beatitudini, la loro logica cambia il cuore, lo guariscono perché sia possibile così prendersi cura del prossimo e del mondo, risucchiato dalla melma dell’individualismo e della barbarie.
La storia, la storia di ognuno si gioca su questa disponibilità all’apertura verso Dio e i fratelli. Affondare qui le radici è il colpo d’ala, il punto più alto e cruciale, il succo della storia anche di un pontificato non misurato secondo categorie ideologiche e mondane, che ha illuminato come l’amore di Dio e l’amore del prossimo non possono andare separati. «Nella storia della Chiesa, i veri rinnovatori – aveva osservato il Papa – sono i santi. Sono loro i veri riformatori, quelli che cambiano, quelli che trasformano, che sviluppano e risuscitano il cammino». La santità è perciò una necessità primaria, è necessaria come l’aria, il respiro. Da chiedere per noi stessi oggi. È questa la riforma, la vera rivoluzione.
Stefania Falasca
Avvenire, lunedì 9 aprile 2018