Omelia del Vescovo nella Messa per il Papa emerito Benedetto XVI

Vorrei fare una premessa necessaria a questa mia omelia in questa celebrazione per Papa Benedetto.

Che cosa stiamo facendo stasera? Stiamo celebrando l’Eucaristia per lui.

Come ho detto all’inizio, gli Atti degli Apostoli, quando Pietro era in prigione, una preghiera saliva dalla Chiesa per lui. Sì, per Pietro! Perché il Papa, chiunque egli sia, è Pietro, è fondamento dell’unità della Chiesa. E noi celebriamo l’Eucaristia in suo suffragio: ne ha bisogno.

L’antica sapienza della Chiesa prevedeva nove giorni di celebrazioni esequiali per il papa defunto: i cosiddetti Novendiali. Perché chi ha avuto maggiori responsabilità può aver peccato anche di più, «a chi fu dato molto sarà richiesto molto di più» è la parola del Vangelo.

Perciò la mia omelia non si fermerà su commenti, giudizi e interpretazioni che abbiamo ascoltato in questi giorni dai mezzi di comunicazione. Noi preghiamo per Pietro con il nome di Benedetto. Preghiamo cioè per un cristiano che nella Chiesa ha esercitato un ministero importante, il ministero petrino, successore di Pietro, servo dei servi di Dio, «un umile operaio nella vigna del Signore» come lui stesso ebbe modo di dire la sera della sua elezione al Pontificato.

Abbiamo ascoltato dal Vangelo una parola di Gesù detta a Pietro: «seguimi» dice il Signore Risorto a questo discepolo scelto per pascere le sue pecore.  Ecco la premessa: «seguimi», questa parola del Signore può essere considerata la chiave per comprendere il messaggio che dobbiamo portare con noi questa sera e che viene dalla vita di papa Benedetto.

«Seguimi». Da giovane, Joseph Ratzinger ha fatto l’esperienza drammatica del Nazismo, del Totalitarismo nazista della sua terra, la Germania. E sente la chiamata a seguire il Signore nel sacerdozio, in particolare la chiamata nel servizio della teologia, che è l’intelligenza della fede, è la fede che interroga se stessa, che vuole capire, che vuole spiegare il mistero di Dio.

Ecco un primo messaggio fortissimo di papa Benedetto meglio, o meglio del giovane teologo Joseph Ratzinger: una fede pensata, la ragionevolezza della fede. La fede è ragionevole, non va contro la ragione. Va insieme alla ragione. La sua ricca produzione teologica, che a partire da quegli anni si è poi sviluppata fino alla sua morte, è un magistero grande. E vorrei proprio ricordare uno dei suoi primi testi, che raccoglie le sue lezioni di giovane professore all’università di Ratisbona. Lezioni che i suoi alunni, tantissimi alunni, raccolsero in questo testo, appunto, che ha fatto storia, che è stato pubblicato più volte e che io consiglio fortemente di leggere, è di facile lettura, a chi non l’avesse ancora fatto. Il titolo è «Introduzione al cristianesimo» e si tratta di un testo che supera anche le generazioni.

Ci ha aiutato, il giovane teologo, a vivere la fede oggi, e qui, a confrontarci con la secolarizzazione imperante, con un tempo moderno che rischia di rendere la fede cristiana, soprattutto in Europa, una fede stanca, una fede irrilevante.

Al centro, il giovane teologo mette l’incontro con Cristo: una delle sue frasi lapidarie, che hanno segnato questi anni è questa. Egli dice: «All’inizio del Cristianesimo non c’è un’idea non c’è un concetto, ma c’è un incontro, un avvenimento». La fede è un incontro, un avvenimento. Dunque una fede pensata: ecco la grande eredità che ci lascia questo pastore, perché una fede che non sia pensata, un cristiano che non pensa la sua fede la espone ad una deriva terribile che si chiama emozione, emotività, soggettivismo, «relativismo», come era solito chiamare lui questa deriva, folklore, cioè una fede emozionale, una fede fondata sui sentimenti, sull’emotività, sul folklore.

Fede e ragione vanno sempre insieme: uno dei documenti promulgati da Papa Giovanni Paolo II, ma alla cui stesura ha contribuito in maniera decisiva Joseph Ratzinger è stato proprio «Fides et ratio», fede e ragione sono cioè come le due ali necessarie e importanti perché la fede metta le radici nel cuore degli uomini del nostro tempo.

Per troppo tempo si è pensato che fede e scienza non andassero d’accordo, che la fede e l’intelligenza fossero in contrapposizione. Anche per merito suo, noi stiamo comprendendo sempre di più che non è così, che la fede cerca l’intelligenza, e l’intelligenza si deve aprire alla fede.

Fede e ragione. «Fides intelligentiam quaerit, La fede cerca l’intelligenza» diceva il grande Agostino d’Ippona, uno dei suoi grandi maestri, papa Benedetto deve molto infatti a questo Gigante della fede del IV secolo. Perciò «credi per capire, capisci per credere» le due cose vanno insieme.

Il pensiero, il logos, come lo chiama il Vangelo di Giovanni. Il giovane teologo Ratzinger ha elogiato il pensiero, l’approfondimento, la ricerca, in un tempo come il nostro che è stato definito tempo del pensiero debole. Perché se oggi c’è una crisi tra tutte le altre, io non ho dubbi che si tratti di una crisi di pensiero.  Costa fatica oggi riflettere e pensare: «abbiamo oggi la libertà di pensiero, ma non abbiamo il pensiero» ha detto Luigi Alici, ex presidente dell’Azione cattolica italiana. Noi non vogliamo pensare. È faticoso pensare pensiamo per slogans adatti a Twitter. Slogans brevi, tutto e subito, senza fatica, senza approfondimento, oppure, se pensiamo, in realtà non pensiamo secondo la nostra intelligenza e la libertà, ma pensiamo secondo il pensiero unico massificante, quello che gli altri, soprattutto la propaganda, vogliono che noi pensiamo.

Ecco: la fede pensata è la grande eredità del giovane teologo Ratzinger, perché se la fede non è pensata rimane una fede bambina, non una fede adulta, rimane una fede per sentito dire, perché tutti pensano così, tutti sono così. Una fede emotiva, fondata sul sentimento, sulle sensazioni. La fede, invece, deve essere pensata.

«Seguimi». Dopo questa prima tappa della sua vita, nel 1977 comincia per il giovane teologo Joseph Ratzinger una nuova tappa nel cammino dietro al Signore, il quale ancora una volta gli rivolge la domanda: «mi ami tu?». E lui gli risponde: «sì, Signore, tu lo sai che ti voglio bene». Ed è stata anche l’ultima parola pronunciata sul letto di morte, prima di entrare in coma: «Signore, io ti amo». «Allora pasci le mie pecorelle» risponde il Signore. E il suo amato Agostino ancora una volta commenta così questo brano del Vangelo: «Sia impegno, ufficio d’amore pascere il gregge del Signore» (sit amoris officium pascere Dominicum gregem). Mi ami? Pasci! Se mi ami, allora pasci. Pascere è segno dell’amore. E’ dunque un servizio di amore pascere il gregge del Signore, e chi non ama non può pascere.

E così nel 1977 egli viene strappato ai suoi amati studi per essere vescovo. Certo continuerà ad essere maestro nella fede, continuerà a studiare, continuerà a produrre, e quale grande maestro, un vero padre della Chiesa. Ma ormai è vescovo, viene fatto arcivescovo di Monaco e Frisinga in Germania. Dovrà assumere il peso del governo. Sì, il peso del governo della Chiesa! Gli antichi padri chiamavano questo peso in latino «episcopalis sarcina» il peso dell’episcopato. Un teologo, un fine raffinato teologo, prestato al ministero di pastore. Perché a Ratzinger piaceva studiare e insegnare, era la sua vocazione ad essere maestro, e invece per obbedienza deve dire sì a scelte che non avrebbe mai fatto.

La prima sofferenza venne appunto quando venne mandato da Paolo VI a guidare la diocesi di Monaco, cercò di spiegare al Papa che la cosa più utile per la Chiesa era che lui continuasse a fare il professore, il maestro, il teologo, ma il Papa non glielo concesse.

Un teologo diventato pastore. Non sempre questo riesce. Si attribuisce al grande San Bernardo un apologo, in cui diceva così riguardo alle doti necessarie a chi doveva assumere il governo nella Chiesa: «Se è santo preghi per noi, se è dotto ci istruisca, se è prudente e saggio allora ci governi». Non sempre un dotto, un santo, è adatto al governo. Ma come gli antichi padri della Chiesa, Agostino, Ambrogio, Cirillo, Giovanni Crisostomo ed altri, anche lui diventa pastore. Teologo e pastore, e ha dovuto quindi imparare suo malgrado l’arte del governo della Chiesa. Venne poi la nomina a Prefetto della Congregazione per la dottrina della fede, e lui soffriva, l’ha rivelato lui stesso, perché questo compito lo obbligava a controllare il lavoro dei suoi colleghi teologi. Per tre volte in quei decenni chiese a Giovanni Paolo II il permesso di dimettersi, voleva tornare dai suoi studenti, alla sua università, ma il Papa gli disse sempre di no.

«Seguimi». Terza tappa, nel 2005 il cardinale Joseph Ratzinger ode di nuovo la voce del Signore, si rinnova ancora una volta il dialogo con Pietro riportato nel Vangelo di stasera: «Simone Di Giovanni, mi ami tu? Pasci le mie pecorelle!». Alla domanda del Signore: «Joseph, mi ami tu?», lui risponde: «Signore, tu sai tutto, tu sai che ti voglio bene». E così, grazie a questo amore, egli ha potuto portare un peso che va oltre le forze puramente umane, essere pastore della Chiesa universale, vescovo della Chiesa di Roma, di quella Chiesa che, dice Ignazio di Antiochia, presiede nella carità a tutte le Chiese.

Non è il momento in questa omelia, dicevo all’inizio, di parlare dei contenuti del suo pontificato. No, è un’omelia. Ma certamente il grande tentativo fatto da questo Papa, che è stato detto all’ultimo Papa europeo, è stato di cercare di rinvigorire la fede della vecchia Europa, che ha smarrito le radici cristiane. Di quei Paesi di antica cristianità, di cui facciamo parte anche noi Italia, ha voluto rinvigorire la fede. Di questa vecchia è stanca da Europa! Ha voluto liberare la fede europea dalla stanchezza dal rischio dell’irrilevanza, oggi la fede da noi è irrilevante, non pesa, non incide sulla cultura, sulla mentalità, sulle scelte di questi antichi cristiani che siamo noi. Ha tentato! E’ riuscito nel tentativo? Questo lo può dire solo il Signore.

«Seguimi». Insieme al mandato di pascere il suo gregge, Gesù annuncia a Pietro il suo martirio: pascendo il gregge di Cristo, Pietro entra nel mistero Pasquale di Croce e di Risurrezione. Il Signore glielo dice con queste parole che abbiamo ascoltato: «Quando eri più giovane andavi dove tu volevi, ma quando sarai vecchio tenderai le tue mani e un altro ti cingerà la veste e ti porterà dove tu non vuoi», e Papa Benedetto si è ritirato sul monte a pregare, con un gesto, cioè la rinuncia, che ha quasi monopolizzato l’attenzione di tanti. Io vorrei dire che non tutti sanno che molti antichi vescovi, santi vescovi, accettavano con riluttanza il peso dell’episcopato: Agostino stesso si ritrova suo malgrado vescovo di Ippona. E poi Ambrogio, lo stesso, viene eletto suo malgrado dalla folla a Milano. Martino, vescovo di Tours … ed altri ancora. Anzi, alcuni come Gregorio di Nazianzo, come Isacco di Ninive, e più tardi sant’Alberto Magno, maestro del Grande Tommaso d’Aquino, è eletto vescovo di Ratisbona, ma dopo due anni lascia. Questi grandi Vescovi del passato reggono per breve tempo la Chiesa loro affidata. Ma poi si ritirano nella solitudine del monastero e tornano ai loro amati studi.

E proprio nell’ottobre scorso, siamo in argomento, appena tre mesi fa il vescovo di Lugano, in Svizzera, ha dato in accordo con la Santa Sede l’annuncio delle sue dimissioni dal proprio incarico episcopale, ha solo 59 anni, poiché, come ha detto lui stesso, è andata crescendo dentro di me una fatica interiore che mi ha progressivamente tolto lo slancio e la serenità richiesti per guidare la Chiesa di Lugano.

E vi confesso che tentazioni del genere ne hanno parecchi Vescovi. Non meraviglia allora la rinuncia di papa Benedetto.

«Seguimi». È l’ultima chiamata. Il 31 dicembre scorso, per l’ultima volta papa Benedetto ha sentito questa parola e ha risposto: «Eccomi Signore io vengo. Signore ti amo».

Ci lascia un ricco patrimonio teologico., una grande testimonianza di fede il suo magistero, i suoi libri, a partire appunto da «Introduzione al cristianesimo». E poi le encicliche: ricordo il nostro stupore quando appena eletto, dopo qualche mese pubblicò la sua prima enciclica, lui teologo, ci si aspettava un’enciclica di stampo teologico, e invece la sua prima enciclica da Papa fu sulla carità: «Deus caritas est». E poi le tante omelie, le catechesi, quelle del mercoledì, bellissime catechesi sugli apostoli, sui santi, tutti i mercoledì; i vari discorsi.

E poi l’Anno Paolino, l’Anno Sacerdotale, l’Anno della Fede. E poi le varie interviste, penso a quella con Vittorio Messori che sfociò in un libro che fece molto discutere: «Rapporto sulla fede».

Nel suo testamento ha detto così: «Rimanete saldi nella fede, non lasciatevi confondere. Nella mia lunga vita. Ho visto crollare tesi che sembravano incrollabili, ho visto e vedo come dal groviglio delle ipotesi emerge sempre la ragionevolezza della fede. Gesù Cristo è veramente la Via, la Verità e la Vita, e la Chiesa, con tutte le sue insufficienze, è veramente il suo corpo.

Cari amici, allora a conclusione contempliamo il grande mistero, la bellezza della Chiesa. Si … due papi … I rotocalchi, le voci che vogliono metterli in contrapposizione. Ma queste sono sciocchezze, la Chiesa ha avuto sempre diverse anime, chi conosce la storia della Chiesa sa che sempre la Chiesa ha conosciuto sensibilità diverse, fin dall’inizio la Chiesa ha avuto quattro Vangeli, non uno, quattro: Matteo, Marco. Luca e Giovanni, che sono diversi tra loro. Pietro non è Paolo, Paolo non è Giovanni. Eppure tutti e quattro, e Pietro, e Paolo, e Giovanni convergono sulla testimonianza di Gesù Cristo Crocifisso e Risorto.

Se non vi fosse nella Chiesa questa dinamica sana, questo sano pluralismo, diciamola questa parola, vi sarebbe la stagnazione del pensiero unico, massificante, e non sarebbe una cosa buona. L’importante, certo, è arrivare all’unità, alla comunione della fede, ma la diversità è ricchezza, e smettiamola una buona volta con lo scandalizzarci di fronte alle diverse sensibilità che esistono nella Chiesa, lo sono sempre state, e sempre lo saranno.

Facciamo Tesoro, certo, del magistero di Benedetto, veramente un padre della Chiesa, ma seguiamo il Papa di oggi, come la liturgia ci fa pregare. Sentite la grande preghiera universale del Venerdì Santo, che segue al racconto della passione del Signore, una delle dieci preghiere: «Ti preghiamo Signore per il nostro Papa Francesco, il Papa che tu hai scelto per noi», questa è la parola testuale della preghiera della Chiesa del Venerdì Santo: «Il Papa che tu hai scelto per noi».

Arricchiamoci del magistero di Benedetto, ma seguiamo il Papa di oggi, e quindi per favore, no alle polarizzazioni, lasciamole ai giornali, lasciamole ai rotocalchi, a quelli che vogliono comunque, si dice a Napoli, azzuppare il pane dentro. Ma noi non possiamo seguirle, noi abbiamo una fede più grande, adulta.

 

 

Quante volte, dopo il Concilio, i cristiani si sono dati da fare per scegliere una parte nella Chiesa. Quante volte si è preferito essere tifosi del proprio gruppo, della propria sensibilità ecclesiale, anziché servi di tutti: progressisti e conservatori, piuttosto che fratelli e sorelle; di destra o di sinistra, piuttosto che di Gesù; erigersi della fede o a solisti della novità, anziché riconoscersi figli umili e grati della Santa Madre Chiesa?

Tutti, tutti siamo figli di Dio, tutti siamo fratelli nella Chiesa, tutti siamo Chiesa, tutti!

Noi siamo le pecorelle del Signore, il suo gregge, e lo siamo solo se insieme, solo se uniti superiamo le polarizzazioni. Custodiamo la comunione, diventiamo sempre più una cosa sola come Gesù ha implorato prima di dare la vita per noi.

E dico questo perché temo che a Pietro oggi non si voglia molto bene! Anche se in teoria non viene discusso, non viene messo in discussione il suo ruolo di successore di Pietro, però la sua parola non viene sempre accolta con l’obbedienza che merita colui che ha ricevuto dal Signore l’incarico di confermare I fratelli nella fede: «E tu quando ti sarai ravveduto conferma i tuoi fratelli» dice Gesù a Pietro. «Confirma fratres tuos», Pietro ha ricevuto questo incarico, di confermare i fratelli nella fede.

A questo povero fratello, ultimo fratello Pietro, servo dei servi di Dio, che forse più di ogni altro nella Chiesa ha bisogno della nostra preghiera e della nostra carità.

 

Antonio Di Donna

Vescovo di Acerra