Essere sacerdoti nell’oggi di Dio

L’omelia di monsignor Di Donna alla Messa Crismale

«Oggi si è compiuta questa scrittura che voi avete ascoltata». Questo avverbio «oggi» è una parola chiave nel Vangelo secondo Luca. «Oggi nella città di Davide è nato per voi un Salvatore» (Lc 2, 1-14). «Oggi devo fermarmi a casa tua» dice Gesù a Zaccheo (Lc 19, 5-6). «Oggi sarai con me in Paradiso» dice al ladrone (Lc 23, 42-43). E’ l’oggi della salvezza, che la liturgia ci fa ritrovare soprattutto nelle grandi feste cristiane, a Natale, a Pasqua, a Pentecoste, nei prefazi: «Oggi è nato», «oggi è risorto», «oggi ha effuso il suo spirito». E’ il disegno di Dio che si compie qui, ed oggi, non ce n’è un altro. Santa Teresa di Gesù Bambino diceva: «Mio Dio, per amarti non ho che quest’oggi».

«Oggi», non ieri, né domani: il mondo di oggi, non di ieri o di domani; la Chiesa di oggi, non quella di ieri o di domani; il Papa di oggi, quel Papa che domani nella solenne preghiera del Venerdì santo indicheremo come «il Papa che Tu hai scelto per noi», non il Papa di ieri o quello di domani.

Questo significa che sia il cosiddetto «tradizionalismo», sia il cosiddetto «progressismo», sono entrambe forme di infedeltà: il tradizionalismo, o come lo chiama papa Francesco, «indietrismo», con uno di quei neologismi a cui ci ha abituati in questi anni, rimpiange il mondo passato; il progressismo segue le mode del mondo. E sono tutti e due egoismi pelagiani, che antepongono i propri gusti al piano di Dio, che si realizza «qui» ed «oggi».

E la Chiesa di oggi, la sua missione pastorale di oggi, piaccia o non piaccia, è quella che ci ha consegnato il Concilio Vaticano II, di cui abbiamo celebrato nei mesi scorsi il sessantesimo anniversario di inaugurazione, l’11 ottobre 1962.

Il Concilio Vaticano II, non il Vaticano I o il Concilio di Trento, neppure il Vaticano III. Quello tracciato dal Concilio è un cammino «irreversibile». Ha detto papa Francesco: «O tu stai con il Concilio, e stai con la Chiesa, o tu non stai con il Concilio, e non stai con la Chiesa!».

Torniamo al Concilio: lo dico a tutti noi, non solo ai presbiteri, ai diaconi, ma a tutto il popolo di Dio. Torniamo al Concilio, che ha riscoperto il grande fiume vivo della Tradizione, senza ristagnare nelle tradizioni. C’è la «Tradizione», con la «T» maiuscola, ci sono le «tradizioni», con la «t» minuscola, che sono le tradizioni degli uomini. E per quanto tradizioni autorevoli, non sono la Tradizione.

E proprio nell’omelia del sessantesimo anniversario del Concilio, papa Francesco così diceva: «Quante volte, dopo il Concilio, i cristiani si sono dati da fare per scegliere una parte nella Chiesa, senza accorgersi di lacerare il cuore della loro Madre. Quante volte si è preferito essere tifosi del proprio gruppo anziché servi di tutti. Si è preferito di essere progressisti o conservatori piuttosto che fratelli e sorelle. Di destra o di sinistra più che di Gesù. Si è preferito ergersi a custodi della verità o a solisti della novità anziché riconoscersi figli umili e grati della santa madre Chiesa». E aggiungeva: «Il Signore non ci vuole così. Tutti, tutti siamo figli di Dio, tutti fratelli nella Chiesa, tutti Chiesa, tutti. Noi siamo le sue pecore, il suo gregge, e lo siamo solo insieme, uniti. Superiamo perciò le polarizzazioni e custodiamo la comunione, diventiamo sempre più una cosa sola come Gesù ha implorato prima di dare la vita per noi».

Carissimi, interroghiamoci sull’oggi di Dio, oggi! Discernere l’oggi di Dio! Cosa vuol dire? Vuol dire che il Signore non ha dato alla sua Chiesa delle ricette da eseguire secondo le istruzioni per l’uso, non ci ha dato delle ricette valide per tutti i tempi e per tutti i luoghi. Ci ha dato la cosa più importante, anzi, non la cosa, ci ha dato lo Spirito santo. Lo Spirito santo è sufficiente, è più che sufficiente per guidare la sua Chiesa e cercare di farsi interrogare dal tempo in cui quella Chiesa vive, in quel momento, in quell’oggi, in quel luogo.

Interroghiamoci sulle opportunità e sui problemi posti alla missione della Chiesa dal tempo in cui viviamo, dai mutamenti che lo caratterizzano. Ho tentato di farlo con gli «Orientamenti diocesani» di questo anno pastorale che ho voluto presentare in quattro incontri nelle varie foranie. Certo, discernere l’oggi di Dio richiede fatica. L’esercizio del discernimento non è facile. E’ faticoso, ma soprattutto richiede quella conversione intellettuale prima che morale, quella conversione intellettuale di cui ci ha parlato padre Beniamino, monsignor Depalma, nel ritiro di Quaresima a noi sacerdoti presentando la figura di Giona e la conversione intellettuale che il Dio d’Israele gli chiede mandandolo a predicare la conversione agli abitanti di Ninive.

Dobbiamo riconoscere, e lo diciamo umilmente a partire da me, che l’arte e la fatica del discernimento non trovano tra noi molti tifosi, ci manca il tempo, talvolta la docilità, la disponibilità interiore, la conversione appunto, e a furia di rispondere alle domande urgenti manchiamo a quelle più importanti. Ci attardiamo su tante cose che riteniamo importanti ma non lo sono più, e trascuriamo le cose veramente urgenti oggi, l’oggi di Dio: l’evangelizzazione, la missione, la Chiesa in uscita, i giovani, le sfide del nostro tempo. E così «filtriamo il moscerino e ingoiamo il cammello!». E diamo risposte a domande che l’uomo di oggi non si pone più.

Cari amici, se non ci esercitiamo nell’arte e nella fatica di discernere l’oggi di Dio, certamente prevale il criterio del «si è sempre fatto così». E tutto è sempre lo stesso: gli incontri di catechismo, salvo poi che i ragazzi se ne vanno; l’omelia domenicale, che è la stessa, mutuando le parole dal grande Manzoni, «dalle Alpi alle piramidi, dal Manzanarre al Reno», e senza fatica può essere riscaldata nel microonde. E le chiese chiudono quando comincia la vita della gente, soprattutto dei giovani, e gli orari delle Messe sono rimasti immutati da decenni.

Cari fratelli, soprattutto cari fratelli presbiteri, rinnoviamo oggi gli impegni assunti nel giorno della nostra ordinazione. Ritorniamo al primo amore, quando il Signore ci ha detto: «Mi ami? Pasci le mie pecorelle!». E noi nel fervore degli inizi abbiamo risposto: «Sì Signore, tu lo sai che io ti amo». La Chiesa in quel giorno, vicino o lontano, ha riposto fiducia in noi, ci ha dato quella fiducia che oggi ci rinnova.

Sì, ci ha dato fiducia! Riflettiamo un attimo, anche per ravvivare la memoria grata di quel giorno, riflettiamo su quello che avviene nell’ordinazione sacerdotale e diaconale. Colui che presenta i candidati dice: «Reverendo padre, la santa madre Chiesa chiede che questi fratelli siano ammessi all’ordine del presbiterato». E il vescovo risponde: «Sei certo che ne siano degni?». Attenzione, badiamo bene: il vescovo non lo chiede al candidato, o ai candidati, se ne sono degni, ma a chi a nome della Chiesa li presenta. Si parla a questa persona, che risponde in prima singolare, non al plurale, di fronte ai candidati: «Dalle informazioni raccolte presso il popolo cristiano, e secondo giudizio dato da coloro che ne hanno curato la formazione, posso attestare che ne sono degni». I candidati stanno in silenzio ma devono sentire questo giudizio, che significa: «Sì, tu sei adatto, tu lo puoi fare, noi ti stiamo ammettendo all’ordine del presbiterato e diaconato perché abbiamo una certezza su di te, sei degno di questo compito e di questa grazia».

Le implicazioni di questo curioso dialogo sono molte e profonde, e non è il caso di considerarle oggi. Ma voglio rilevare la totale passività del candidato, o dei candidati. Ma come?  Quell’uomo, o quegli uomini, devono ricevere quel giorno molte cose, gli saranno affidati compiti tremendi, importantissimi, ma in questo passaggio, non dice, o non dicono, almeno in questa prima parte, nulla! Ricevono bensì l’attestazione pubblica di una certezza. Qualcuno pensa che «questo tu lo possa fare», ed è la Comunità ecclesiale. Di questa certezza, quell’uomo, o quegli uomini, avranno bisogno mille volte nella loro vita per incidere sulla realtà e prendere possesso dei doni che gli serviranno per costruire la Chiesa.

Cari fratelli presbiteri, oggi, come ogni anno, ancora una volta la Chiesa rinnova la fiducia che ha posto in noi, rinnova stamattina quello stesso dialogo: «Tu ce la puoi fare, noi contiamo su di te, tu puoi farcela». E noi stamattina incassiamo questa fiducia e la portiamo a casa con gratitudine e riconoscenza. Ci viene rinnovata quella fiducia!

Grazie presbiteri perché ci siete prima ancora che per quello che fate; grazie a quei presbiteri in particolare, permettetemelo, che sanno discernere l’oggi di Dio, che perdono tempo in relazioni pastorali dove ci si guarda negli occhi, che conoscono i nomi dei loro parrocchiani, che si spendono a tutte le ore, senza orari di ufficio, che non stanno chiusi nelle loro stanze, ma vanno alla ricerca delle pecorelle lontane, che non si limitano a celebrare Messe e Sacramenti, pur importanti e fondamentali, centrali, ma escono. Quei presbiteri che accolgono tutti con sguardo di misericordia, pur dovendo ricordare a chi è più riottoso la legge di Dio e le norme della Chiesa.  Beati quei presbiteri che vivono così, in un’eroica fedeltà a Dio e all’uomo.

E mentre, cari amici preti, io sto tratteggiando questo profilo, ho passato in rassegna ciascuno di voi, non dico i nomi, ma passando in rassegna ciascuno di voi sento il bisogno di ringraziare il Signore per quei presbiteri della nostra Chiesa, per esempio, che coltivano la fraternità sacerdotale anche solo promuovendo momenti di agape fraterna; grazie a quei presbiteri che sono attenti ai poveri, alle varie povertà, soprattutto educative, curando i ragazzi e i giovani negli oratori, o i giovani drogati del Sert ospitato nella nostra città; a quei presbiteri che seguono gli ammalati, soprattutto bambini malati oncologici o portatori di handicap, le loro famiglie. Beati quei presbiteri che seguono le persone fragili, le coppie in difficoltà. Beati quei presbiteri che si dedicano alle nuove forme di evangelizzazione, di catechesi, nella nostra diocesi. Beati, e grazie a quei presbiteri che sono attenti con intelligenza acuta alla vita della città, delle sue Istituzioni, dei cittadini, e ci stanno dentro.

Grazie! A questi, e ad altri, a tutti i presbiteri che in forma nuova cercano di discernere l’oggi di Dio! Ci aiuti la Vergine Maria, madre dei sacerdoti, madre dell’unità della Chiesa, madre di tutti noi!

Cattedrale di Acerra, giovedì santo, 6 aprile 2023

Antonio, vescovo