Egli è Colui che viene

«Noi siamo pellegrini tra le due venute del Signore». L’omelia del vescovo pronunciata in Cattedrale per la prima domenica di Avvento

«Maranatha, vieni Signore». E’ la più antica preghiera dei cristiani, con la quale iniziamo oggi, prima domenica di Avvento, un tempo di preparazione per fare memoria della venuta storica del Signore nella Festa del Natale.
Ancora una volta, l’Avvento ci ricorda che noi viviamo pellegrini tra le due venute del Signore: la prima, nel passato, duemila anni fa a Betlemme, nato da Maria (la nostra fede ci dice infatti che in quel Bambino è Dio stesso che si è fatto carne ed è venuto in mezzo a noi);  la seconda ed ultima, nel futuro, quando «Egli verrà nella gloria a giudicare i vivi e i morti» (come diremo tra poco nel Credo, o come ascolteremo nella celebrazione dell’Eucaristia, anche stasera: «Annunciamo la tua morte Signore, proclamiamo la tua Resurrezione, nell’attesa della tua venuta»; e ancora, più avanti nella Messa, poco dopo il Padre Nostro, il celebrante dice: «Nell’attesa che si compia la beata speranza e venga il nostro Salvatore Gesù Cristo»).
Eppure, la prima domenica d’Avvento parte, stranamente, non dal Natale e dalla venuta nella storia di Gesù, ma dall’ultima venuta, quando «Egli verrà, alla fine dei tempi». Il Vangelo appena proclamato parla di futuro, di quando ci saranno «segni nel sole, nella luna, nelle stelle, le potenze dei cieli saranno sconvolte e il Figlio dell’uomo verrà su una nube con grande potenza e gloria».
Evidentemente, la Parola di Dio non rispetta l’ordine dei tempi che abbiamo imparato quando andavamo a scuola elementare, quando cioè ci dicevano che c’è il tempo presente, passato e futuro.
Si parte e si guarda al tempo futuro, per arrivare all’oggi e capire come vivere il presente.
Cari amici, il Cristianesimo non è solo passato, tradizione, memoria, fosse pure il passato glorioso di Gesù. Se ci limitassimo ad esso, a ricordare e fare memoria, saremmo dei nostalgici, dei tradizionalisti, probabilmente anche dei fondamentalisti, irrigiditi solo sul passato, un’epoca d’oro che ricorderemmo di volta in volta ogni anno. Se fosse così, noi cristiani, la Chiesa, saremmo semplici custodi di un museo, di qualcosa di antico, anche se di cose stupende. Non è così. La Chiesa non è un museo, e noi cristiani non siamo custodi di opere morte, ma pellegrini chiamati a guardare il futuro che il Signore prepara per noi. La fede cristiana ha una dimensione importante di apertura al futuro, al Dio che è venuto e che viene, il Dio dei nostri padri, ma anche il Dio che verrà, il Dio della promessa, il Dio che non solo sta dietro di noi ma sta anche davanti a noi. E’ Lui il nostro futuro, non solo il nostro passato.
L’Avvento ci invita perciò a tendere verso il futuro – ecco il significato della parola “attesa” – e i verbi e le parole di questo tempo forte – che sentiremo in queste settimane dai profeti antichi, a cominciare da stasera con il profeta Geremia – sono tutti al futuro. La fede cristiana dovrà sempre conservare quest’attenzione verso il futuro, verso l’ultima venuta di Gesù, perché dimenticare che il Signore non è solo venuto, ma verrà a giudicare i vivi e morti, è pericoloso. Se noi cristiani e la Chiesa dimenticassimo che siamo pellegrini, e vivessimo senza questa tensione verso quel futuro che il Signore prepara per noi, il Cristianesimo si ridurrebbe soltanto a dottrina, ad etica, ad un insieme di cose da fare, precetti, valori, dottrina.
Invece no, noi siamo attesi verso Colui che viene: «Maranathà», pregavano gli antichi cristiani. Vieni Signore, vieni al più presto a rinnovare la faccia della terra, perché noi non ce la facciamo più, siamo bisognosi di salvezza e da soli non possiamo salvarci, se non vieni Tu a dare giustizia e pace, se non vieni Tu a rinnovare la faccia della terra. Noi siamo perduti, vieni Signore, «Maranathà».
Il brano che abbiamo ascoltato dal Vangelo di Luca – che ci accompagnerà lungo l’anno liturgico – ci parla, con un linguaggio un po’ difficile e particolare, di questi ultimi tempi: «Vi saranno segni nel sole, nella luna, nelle stelle; sulla terra ci sarà angoscia, paura, di popoli in ansia, le potenze dei cieli saranno sconvolte».
Di cosa sta parlando Gesù? Della fine del mondo? Forse che Gesù ci vuole forse mettere paura e angoscia di fronte agli sconvolgimenti del cielo e della terra, ai grandi tumulti e alle guerre? Ma come, si mette anche Lui? Abbiamo già tanti motivi di paura e di angoscia – e non finiremmo stasera di elencarli, a partire dai fatti del nostro tempo, mondiali, internazionali, nazionali e locali, della nostra città e dei nostri paesi? Ma il Vangelo è bella notizia, annuncio di gioia, come è possibile che incuta paura e angoscia?
Evidentemente, non è cosi! Dobbiamo pertanto cogliere la buona notizia di questa pagina, anche se un po’ difficile e lontana da noi! Gesù parla della fine del mondo, ma Egli parla di cose che sono successe, succedono e succederanno in ogni generazione umana. E chi di noi, anche nella sua vita personale, non ha vissuto e non vive qualche volta una specie di fine del mondo? La perdita del lavoro, la malattia, la morte di una persona cara, una delusione, un tradimento, un insuccesso, un progetto in cui tu speravi e hai faticato tanto ma che non si realizza o fa fatica a concretizzarsi, e tante altre cose, non sembrano tutte una specie di fine del mondo? Tanto che di fronte a queste esperienze ci capita spesso di esclamare: «Mi sta cadendo il mondo addosso, non ci capisco più niente?». Ad ognuno di noi può quindi capitare di vivere in qualche modo una fine del mondo.
E come spiegare il crollo del sole e della luna? Quante cose abbiamo visto cadere rovinosamente negli ultimi decenni, certo non il sole o la luna, ma quanti valori che cambiano, certezze che crollano, ideologie e quanti poteri che sembravano eterni. Siamo testimoni, appena trent’anni fa, della caduta del muro di Berlino, e di tante cose che sembravano per lungo tempo rimanere come segno dei poteri di umani, di ideologie. Anche la nostra generazione vive una sorta di fine del mondo: non parliamo forse di fine della civiltà occidentale, di un certo modo di cristianesimo, convenzionale, tradizionale? Non andiamo forse ripetendo di essere in una fase di passaggio, di transizione da un modo di vivere e di pensare ad un altro? Tante cose stanno cambiando, i nostri figli, i nostri nipoti, i nostri giovani, i ragazzi di oggi sono un po’ il segno di questo cambiamento, non li capiamo più, non li comprendiamo nel loro linguaggio, nel loro comportamento. Siamo, insomma, in un’epoca in cui un mondo finisce. Ma la fine di un mondo non è la fine del mondo, perché finisce un mondo e ne nasce un altro. La crisi generale che stiamo vivendo indica proprio questo passaggio, di cui, forse, noi non avvertiamo ancora i segnali.
Ma allora, cosa vorrà dirci il Signore, quale è il messaggio della pagina del Vangelo di stasera, la bella notizia, la gioia che vuole trasmetterci?
Cari amici, il brano del Vangelo, per quanto oscuro e difficile, su un punto è chiarissimo. Quando afferma che «ci saranno segni nel sole, le potenze del cielo saranno sconvolte», Gesù ci dice che «tutto passa, ma c’è Qualcuno che non passa». Non a caso, più avanti nello stesso brano del Vangelo di Luca, esclama: «I cieli e la terra passeranno, le mie parole non passeranno».
Ecco il lieto messaggio che qui si annuncia: niente è eterno, tutto passa, ma c’è qualcosa che non passa. «Quando cominceranno ad accadere queste cose, risollevati, alzate il capo, perché la vostra liberazione è vicina. Vedrete il Figlio dell’uomo venire con potenza e gloria». Gesù ci ricorda che Lui è il Signore, giudice e salvatore. Lui porterà a compimento la storia. E i potenti, i grandi, l’oppressione e l’ingiustizia non avranno l’ultima parola, perché Lui è la parola decisiva e definitiva del futuro mio, vostro, dei morti, di quelli che verranno e della storia intera. «Vedrete il Figlio dell’uomo venire con potenza grande nella gloria» significa che la storia non è capace di dare un giudizio definitivo sulle cose, ma sarà essa stessa giudicata dall’alto, e Colui che la giudicherà darà più importanza a quelle cose che noi oggi vediamo secondarie, ma che ai Suoi occhi sono importanti; mentre quelle cose che il mondo vede invece come importanti e determinanti, ai Suoi occhi sono irrilevanti. Lui rovescerà le situazioni, perché Lui soltanto è il giudice della storia.
Questo se questo è il lieto annuncio, per chi è questa bella notizia? Certamente, non per quelli che se la spassano senza problemi; ma per i perseguitati e i poveri della storia, quelli che patiscono scandalo e sono emarginati, derisi, calpestati. Era una buona notizia per chi ascoltava le parole di Gesù, per le prime comunità cristiane perseguitate dal potere di Roma (anch’esse tentate dal pensare che il Signore tardasse a venire di fronte alle cose non cambiavano); ed è una buona notizia per i martiri e i perseguitati di oggi: nulla è eterno, i cieli e la terra, tutti i poteri e le ideologie che schiacciano l’uomo passeranno, non l’avranno vinta, rimarrà Lui solo! Ecco perché nel Credo diciamo: «Di nuovo Egli verrà nella gloria per giudicare i vivi e i morti, e il suo regno non avrà fine».
E per noi oggi, qui ad Acerra? Quale incoraggiamento e speranza trarre dalla Parola, dalla lieta e bella notizia di stasera? Lo so, la speranza è una merce molto rara ai nostri tempi, non la vende nessuno, neanche al mercato nero di contrabbando la trovi, è senza prezzo. La crisi che viviamo, prima ancora che economica e di lavoro, è una crisi di fiducia in quel futuro diventato la grande la grande bestia che suscita in noi paura e ansia di non farcela. Perciò, vado ripetendo spesso che noi siamo la prima generazione della storia per la quale il futuro è più temuto che sperato. Tutte le generazioni, fino a quella dei nostri padri, si sono fondate sulla speranza del futuro: i nostri padri facevano sacrifici con la certezza che il futuro dei loro figli sarebbe stato migliore del loro presente; noi siamo forse la prima generazione della storia dove i genitori hanno paura del futuro dei figli. La denatalità, per esempio, non è una questione solo di egoismo o di irresponsabilità; c’è qualcosa di più profondo: la paura del futuro. Oggi viviamo una crisi di futuro e di speranza, per questo siamo ripiegati sul presente senza domani, sul “tirare a campare” – espressione napoletana molto suggestiva e chiara per indicare il modo di pensare dei nostri tempi, senza orientamento, schiavo del motto “tutto e subito”, che rinuncia alla fatica del futuro, e non pensa o parla di vita eterna. Un altro esempio, il risparmio. Chi risparmia più oggi? Chi mette da parte più qualcosa? Una volta, mi ricordo, si comprava la dote per le figlie che si dovevano sposare, oggi neanche per sogno! Se è vero che nelle condizioni economiche in cui versiamo, è sempre più difficile risparmiare, pure se fosse possibile, la nostra mentalità non ammette di pensare al domani. Il risultato è evidente sui giovani, che si ritrovano senza punti di riferimento, privi di orientamento, senza un progetto di vita – diversamente da quando noi eravamo piccoli – dominati da rassegnazione e sfiducia.
Ma allora, possiamo veramente sperare, o è un’illusione?  Ha un fondamento la nostra speranza, che per i cristiani non è una semplice parola, ma una virtù teologale insieme a fede e carità?
Cari amici, senza speranza non si può vivere: togli ad un ammalato la speranza di guarire e l’hai ucciso prima ancora che muore; priva un giovane della speranza di trovare un lavoro e di formarsi una famiglia, e gli hai rubato il futuro! Nessuno può vivere senza speranza, e noi cristiani possiamo sperare perché la nostra virtù della speranza è fondata su quel Gesù che deve venire, il Signore che verrà a giudicare i vivi e i morti; Egli non è un illusione, ma è Colui che già è venuto nella storia, ci ha salvati e redenti, e ogni giorno, nell’Eucaristia e nel Vangelo, ci salva!
Perciò, vorrei concludere con le parole di Sant’Agostino, che a sua volta commenta le parole dell’apostolo Paolo sulla speranza. La speranza è una madre che ha due figli, dice il santo vescovo di Ippona, due bellissimi figli: il primo è lo sdegno, l’essere indignati per come vanno le cose, il presente non basta e soddisfa per come si mostra. L’indignazione è un fatto comune, ma spesso cadiamo nella rassegnazione. Beati invece quelli che si indignano, che provano sdegno perché vorrebbero qualcosa di più, la giustizia, la pace e la verità, perché quando non siamo nemmeno capaci di indignarci, significa che siamo diventati freddi e cinici, indifferenti anche alle cose più gravi. Anche se viviamo dal punto di vista fisico e biologico, siamo morti dentro.
Il secondo figlio della speranza è, secondo Sant’Agostino, il coraggio. Troppo spesso ci fermiamo al primo ed unico figlio, lo sdegno, e non abbiamo il coraggio dell’impegno, neanche nel nostro piccolo. Ma se allarghiamo la famiglia, e insieme all’indignazione ci mettiamo il coraggio dell’impegno, cominciamo a vedere nella giusta maniera gli ultimi tempi e la stessa pagina di Vangelo di stasera, cercando di ricavare da essa indicazioni per il futuro: «State attenti a voi stessi, che i vostri cuori non si appesantiscano in ubriachezze, dissipazioni e affanni della vita. State attenti. Non vi fate cogliere impreparati, state svegli», dice Gesù nella seconda parte del Vangelo che abbiamo letto. Il grande nemico della fede è il sonno, che provoca rassegnazione e apatia. Qualcuno ha definito quella attuale la società dell’anestetico. Svegliatevi, dice invece il Vangelo, non vi addormentate; il sonno della ragione genera i mostri, ha detto lo scrittore, come pure il sonno della coscienza. Attenzione, quindi, a non avere i cuori appesantiti, ma attenti, svegli, lucidi e capaci di vegliare!
E allora cari amici, buon Avvento, a me e a voi, buon tempo di preparazione al Natale del Signore, buona attesa di Colui che verrà. Ricominciamo, rimettiamoci in cammino, perché se ogni giorno c’è un mondo che muore, qualche certezza crolla, e anche nella nostra vita cade qualcosa, ogni giorno c’è anche un mondo che deve nascere, attraverso inizi sempre nuovi. Lo auguro a me e a voi: quando la paura afferra il cuore perché il futuro spaventa, la Sua Parola, che non passerà, illumini e infonda fiducia; quando gli affanni e le preoccupazioni quotidiane spengono il desiderio in un mondo nuovo, la Sua Parola risvegli il desiderio e l’attesa; quando assale il dubbio che qualcosa di nuovo possa accadere sulla faccia della terra, la Sua Parola scuota e rinfranchi l’impegno; quando il grigiore della vita toglie slancio agli ideali, e si diventa incapaci di cogliere la Parola del Signore nella storia, la Sua Parola doni forza e slancio al nostro andare. Possa essere così per il nostro Avvento e per ogni giorno della nostra vita, mentre lo invochiamo con forza, come le prime generazioni cristiane, «Maranathà». Vieni Signore, vieni e metti il Tuo regno di giustizia e di pace in questo mondo vecchio che da solo è incapace a darsi salvezza.