Don Ciro Maione è sacerdote. L’omelia del vescovo Di Donna

Uomini e pastori che sanno prendere l’iniziativa

Il 30 settembre nella Cattedrale di Acerra il vescovo Antonio Di Donna ha ordinato sacerdote il diacono Ciro Maione. Alla concelebrazione con decine di sacerdoti ha preso parte il vescovo emerito Giovanni Rinaldi.

Primo di due figli, don Ciro ha 35 anni. Dopo la maturità scientifica ha conseguito la laurea triennale in scienze ambientali; nel 2015 la laurea di primo livello in pianoforte al Conservatorio di Napoli.

In ascolto della parola di Dio e accompagnato nel discernimento dal suo parroco, ha intrapreso il cammino sulla via del sacerdozio nel 2015 presso il seminario arcivescovile di Napoli. Dopo il VI anno di formazione nel seminario di Acerra, l’11 giugno del 2022 è stato ordinato diacono da monsignor Di Donna. Svolge il suo servizio nella parrocchia Sant’Alfonso di Acerra. Don Ciro ha celebrato la prima messa nella parrocchia san Nicola di Licignano Domenica 1 ottobre, il giorno seguente nella parrocchia sant’Alfonso di Acerra. Di seguito pubblichiamo l’omelia del vescovo pronunciata nel giorno dell’ordinazione.

«Figlio oggi và a lavorare nella vigna» (Mt 21, 28-32).

Caro Ciro, questa parola del Signore di stasera è particolarmente per te, e anche per noi, vescovi e presbiteri: si tratta della Parabola dei due figli, in cui uno dice «» al Padre, ma non fa nulla; il secondo dice «no» in un primo momento, poi però si pente e obbedisce.

Da quale figlio vogliamo partire?

Incominciamo da quello che forse ci assomiglia di più, il figlio che dice «» ma poi non fa la volontà del Padre. A questi figli, che sono i capi dei sacerdoti, e agli anziani del popolo, Gesù rivolge una parola terribile, che deve essere suonata come uno schiaffo in pieno volto. E stasera vogliamo sentirla rivolta anche noi: «I pubblicani e le prostitute entrano prima di voi nel regno dei cieli». Perché «non chiunque mi dice: Signore, Signore, entrerà nel regno dei cieli, ma colui che fa la volontà del Padre mio che è nei cieli» (Mt 7, 21).

Quanti «» nella nostra vita! A partire dal Battesimo, quando i nostri genitori ci hanno presentato alla comunità e hanno detto «sì, ci impegniamo a educare nostro figlio nella fede». E poi il «» della cresima, il «» del matrimonio per chi è sposato, e anche per noi ministri il «» della nostra ordinazione, quello che tu, Ciro, pronuncerai in maniera definitiva tra qualche minuto. Si tratta di un «» martellante. Più domande il vescovo rivolge all’eletto: «Vuoi, vuoi, vuoi», e tu risponderai altrettante volte: «Sì, lo voglio, lo voglio, lo voglio».  Quanti «», non accompagnati e tradotti in una pratica fedele alla volontà del Padre! Quanti «», nel nostro ministero di presbiteri e di vescovi diventano routine, assuefazione, abitudine.

Cito spesso le parole severe che il cardinale Giovan Battista Montini, futuro papa Paolo VI santo, rivolgeva nel lontano 1959 ai suoi preti della diocesi di Milano: «Il calcolo del minimo sforzo, l’arte di evitare le noie, il sogno di una solitudine dolce e tranquilla, la difesa dello stretto dovuto e non di più, gli orari protettivi della propria comodità e non della comodità degli altri».

Sono alcune delle derive che rendono il nostro ministero abitudinario, sciatto. Oggi, dopo 60 anni, potremmo aggiungerne altre: la visione burocratica e funzionale del ministero sacerdotale; il clericalismo, più volte denunciato da papa Francesco; la ricerca di protagonismo e autoreferenzialità; l’uso scorretto dei social. Sono le nuove piaghe che minano il nostro ministero, con il rischio, molto forte, di fare l’abitudine alle cose di Dio.

Poi c’è l’altro figlio, quello che in un primo momento dice «no», dopo si pente e va nella vigna, obbedisce alla volontà del Padre. Quando leggo queste pagine del Vangelo, penso che sia inutile negare una misteriosa simpatia di Gesù per i caratteri forti, persone poco inclini a sottomettersi immediatamente all’obbedienza della fede: forse intuiva le ricchezze segrete dei cuori ribelli e le loro possibilità di conversione autentica.

Impariamo anche noi, impara anche tu Ciro, nel tuo futuro ministero, da questo figlio che dice «no» ma poi si pente e obbedisce. Io mi chiedo certe volte: chi è più grande, colui che non sbaglia, o pensa e crede di non sbagliare, o chi invece sbaglia, ma poi ammette il suo errore? Ci sono persone che si vantano di avere avuto sempre le stesse idee e di non aver mai cambiato posizione: vivono di certezze granitiche, inamovibili, e certe volte sono un po’ noiosi e rigidi.

Ma vivere vuol dire crescere, mettersi in discussione! Abbiamo da imparare da questo figlio che dice «no», dopo ci ripensa e obbedisce! Figli così, se non sbaglio, sono stati dei grandi santi nella vita della Chiesa! Ne cito solo alcuni. Come non pensare a Saulo, convertito sulla via di Damasco e diventato Paolo, il grande apostolo? E al grande Agostino, a Francesco di Assisi? E in epoca più recente, al grande Vincenzo de Paoli, il santo della carità, il quale si converte da prete? S’era fatto sacerdote per cercare una sistemazione opportuna, economicamente conveniente, e poi si converte! Sono i poveri che lo convertono!

E come non pensare al nostro grande Sant’Alfonso, all’inizio convinto rigorista, convertito poi dalle missioni popolari a contatto con la povera gente? Le sue parole, riportate dal biografo Théodule Rey-Mermet, redentorista, autore di Le saint du siècle des Lumières (il santo del secolo dei Lumi): «Io confesso che quando cominciai a studiare la teologia morale seguivo la rigida sentenza. In seguito, però, applicandosi all’apostolato delle missioni popolari. a contatto con la povera gente, ho praticato la dottrina benigna». Così lui chiama la Teoria del “giusto mezzo” per cui è rimasto famoso nella storia della morale: «Alfonso non ha mai rifiutato l’assoluzione al penitente, lo ha messo sempre nelle condizioni di riceverla, smantellando la marea del rigorismo che sprezzando il Vangelo imponeva un vero terrorismo spirituale di un intollerabile rigore» aggiunge Rey-Mermet.

Caro Ciro, cari presbiteri, lasciati, lasciamoci convertire. Abbi il coraggio di sbagliare e metterti in discussione; di osare. Non stare mai fermo: non limitarti nel ministero a ripetere la retta dottrina, incarnala nella vita reale della gente. Questo potrà significare, ricordalo caro fratello giovane, anche esplorare nuovi linguaggi e metodi pastorali, uscire dai recinti sicuri del sacro. Ma devi farlo, perché la vita sta nel movimento. Sii un pastore che prende l’iniziativa. Se posso confidarti, mi sono sempre fatto guidare nella mia lunga vita di presbitero, e poi di vescovo, da un principio: «Chi osa, chi fa, può anche sbagliare; ma chi non osa, non fa, sbaglia sempre e comunque». Si può sbagliare. Osa Ciro! E’ il punto centrale di questa omelia per la tua ordinazione: il pastore come uomo di iniziativa in una chiesa in uscita, non aspetta di essere spinto. Specialmente in questo cambio di epoca, in cui l’ostinata ripetizione di ciò che si è sempre fatto non dà più risultati! E’ pura follia immaginare di ottenere frutti facendo quello che si è sempre fatto!

Il pastore deve essere una persona piena di intraprendenza, creativa, dotata di coraggio, che non si lascia vincere dal panico in situazioni non prevedibili, ma sa gestirle positivamente, con serenità, intuito e fantasia. Il pastore come persona che non cade nella rigidità mentale, ma neanche nella eccessiva flessibilità opportunistica che segue le mode del momento. Né l’uno né l’altro!

Ma c’è un terzo figlio in questa famiglia allargata, di cui Gesù non parla, perché è Lui, che ha detto e ha fatto «»: ha detto «sì, eccomi, io vengo, Padre, per fare la tua volontà» e l’ha compiuta, abbiamo ascoltato stasera nella seconda lettura, che porterai con te per la vita, l’inno cristologico ai Filippesi: «Egli, pur essendo nella condizione di essere uguale a Dio, non considerò un tesoro geloso, ma svuotò se stesso». Siano in te gli stessi sentimenti di Cristo Gesù, imita questo terzo figlio!

Alcune, ultime raccomandazioni.

Vivi e cura le relazioni. Anzitutto con il Signore: stasera a te è rivolta la parola di Gesù a Simone, figlio di Giovanni: «Mi ami tu, mi ami?». Allora «pasci le mie pecorelle». E’ la relazione fondante, senza la quale non esistono le altre. Poi con il vescovo: «Prometti a me e ai miei successori filiale rispetto e obbedienza». Non è, e non deve essere, obbedienza formale ma sincera, in dialogo, libera di esprimersi, e che segue gli orientamenti del vescovo. Ancora, con i fratelli preti: stasera, insieme con me e il vescovo Giovanni, imporranno anche loro le mani sul tuo capo. Diventare presbitero significa entrare nel collegio del presbiterio. Con tutti, giovani e vecchi, simpatici e antipatici, che la pensano come me e che non la pensano come me. E ti esorto: nei prossimi giorni, passata l’euforia di queste ore, va a trovare i sacerdoti anziani e malati, che non sono potuti venuti stasera. Incontrali a casa loro: don Salvatore, don Oreste, don Ciccio, don Gregorio. Mi hanno telefonato e hanno assicurato la preghiera per te, rendi il cambio. È un gesto semplice ma molto significativo: hanno dato la vita per la Chiesa di Acerra. Infine, la relazione con i laici e il popolo di Dio. Mai padrone, sei servo della loro fede: mai rivendicare che sei il parroco e gli altri devono stare al loro posto! D’altra parte, prima che indicazione della Chiesa, è saggezza che viene dal senso comune: nel terzo millennio significherebbe porsi fuori dalla storia, non ha senso questa posizione fortemente gerarchica e autoritaria. Presbitero della Chiesa, hai un compito di autorità, capo e pastore, ma non per dominare su fratelli e sorelle a te affidati.

Cura la tua formazione personale. Dedica tempo e volontà alla lettura e all’aggiornamento, all’approfondimento. Non è sprecato, ma necessario! Non lasciarti prendere dall’eresia dell’azione, dal pragmatismo, dal fare per il fare. Cura anzitutto tu la tua formazione, devi pensarci tu, è nelle tue mani. Poi c’è anche quella che ti offre la diocesi. Per favore caro Ciro, partecipa agli incontri del presbiterio, plenario e foraniale: non è mai tempo perso, e il Signore un giorno te ne chiederà conto. Tale partecipazione deve stare in cima alle tue preoccupazioni: è l’occasione per incontrare i fratelli, anche scontrarsi, ma meglio questo che l’indifferenza, l’assenza e il distacco. La crisi di un ministro incomincia con la solitudine, col prendere le distanze dal gruppo.

Infine, i tre amori che ripeto spesso: ama il Signore, la Chiesa, questa Chiesa, e i poveri, il resto è secondario.

Un’ultima parola a voi, cari fratelli e sorelle laici e laiche. Alla comunità di Sant’Alfonso di Acerra, dove Ciro svolge il ministero. Alle comunità parrocchiali tutte, a quelle che hanno ricevuto in questi anni preti giovani come vicari. E’ una riflessione del pastore della Chiesa di Milano, l’arcivescovo Mario Delpini, durante l’ordinazione di dieci preti lo scorso 10 giugno: «Le comunità che accoglieranno i futuri presbiteri. Non si aspettino prodotti finiti, tuttologi, risolutori di ogni problema. Si aspettino invece giovani uomini che intendono continuare il loro cammino di docilità allo Spirito all’interno del ministero, in cammino con altri, imparando da altri e accompagnando altri. Queste comunità accolgano i nuovi presbiteri come un dono, a prescindere, a prescindere dalla loro personalità, a prescindere dal loro carattere, sono un dono. A volte capita infatti che i giovani presbiteri sono studiati e misurati più che accolti. D’altra parte però, i preti novelli, si predispongono a continuare a imparare e a ricevere. Accolgano la realtà per come si presenta, a volte fragile e contraddittoria, ma proprio per questo ancora più assetata dell’annuncio evangelico, dell’amore e della pace».

Ti protegga la Vergine Maria, l’intercessione del grande sant’Alfonso, nostro patrono, e di san Cuono e figlio, patroni di questa città di Acerra.