Meditazione al clero di Napoli di Mons. Antonio Di Donna

Diventare preti, rimanere preti

Camaldoli, 12 maggio 2023

Testo scritto dalla registrazione e non rivisto dall’autore

Un saluto affettuoso a tutti voi e la mia gratitudine per l’invito che mi è stato rivolto; mi dà l’occasione di incontrare vecchi amici. Saluto soprattutto i confratelli vescovi e i sacerdoti che compiono 25 e 50 anni di ordinazione.

Una parola anzitutto sul titolo di questa meditazione che mi è stata chiesta; esso si rifà al titolo della lettera che quest’anno ho scritto ai “miei” preti: Preti non si nasce, si diventa. Si rifà a quell’assioma di Tertulliano che, a proposito dell’iniziazione cristiana, dice: Cristiani non si nasce ma si diventa (christianus non nascitur sed fit). Ho mutuato questa quest’affermazione da Tertulliano e l’ho applicata al ministero presbiterale. E l’ho mutuata anche da Amedeo Cencini, il quale la usa nella postfazione che lui fa alla traduzione italiana del libro di un vescovo francese Gerard Daucourt, dal titolo Preti spezzati. Con l’indicazione datami da don Lello ho aggiunto a questa espressione (diventare preti) l’altra: “rimanere preti”, cioè la sfida della perseveranza, della durata. Già lo diceva il nostro sant’Alfonso: bisogna chiedere al Signore due grazie, la grazia della chiamata ma anche la grazia della perseveranza nella chiamata. Dunque, diventare e rimanere preti. La durata è una sfida, lo sappiamo bene. Papa Francesco sottolinea spesso che viviamo in una cultura del provvisorio, per la quale niente deve durare, non solo le cose che usiamo ma neppure le relazioni, l’amicizia, la relazione coniugale e così via. È la sfida della durata e delle inevitabili crisi durante il tempo che viviamo nel nostro ministero. Qui la parola “crisi” io la assumo in un’accezione che ormai è familiare da tanto tempo per noi; la parola “crisi”, “krisis”, “krinein” in greco non è una parola negativa, assolutamente. È una parola che indica un giudizio, un discernimento soprattutto in certi momenti della vita nelle cosiddette fasi di passaggio, quando appunto bisogna discernere la crisi. Quante volte l’abbiamo detto soprattutto nel periodo della pandemia, quando abbiamo detto che la crisi è un’opportunità, è un’occasione, non è solo un fatto negativo ma è un’occasione per crescere. In questa meditazione assumo la parola “crisi” in questa accezione.

“Rimanere preti” e, dunque, vivere le inevitabili crisi nel nostro ministero. Di fronte alle crisi si possono prendere tre atteggiamenti. Un primo atteggiamento è di chi dice che la crisi passerà, è una parentesi. Ma la crisi non è una parentesi. Durante la pandemia ci hanno detto: “tutto andrà bene”. Le crisi non sono mai una parentesi. Un secondo atteggiamento negativo è la rassegnazione. È dire: “così deve andare, rassegniamoci e andiamo avanti”. C’è un terzo atteggiamento, che è quello più positivo, cioè di assumere la crisi, di starci dentro, di attraversarla e gestirla per uscirne, viverla come un’opportunità.

Vi propongo un triplice ordine di crisi nel ministero. Un primo ordine di cause è il seguente. Anzitutto l’insostenibilità del nostro ministero. Secondo molti osservatori sono soprattutto tre i fattori che procurano il disagio della vita di un presbitero oggi: Il sovraccarico di lavoro, in particolare il peso degli aspetti gestionali e amministrativi. Il secondo fattore è la messa in discussione della figura del prete in una società largamente desacralizzata, per cui l’autorevolezza del prete non è un dato acquisito ma è una continua conquista sul campo. Ormai lo sappiamo bene, non viviamo più in un contesto sacrale, com’era la civiltà rurale di un tempo, dove in un paese contavano soprattutto le tre figure classiche: il farmacista, il maresciallo e il parroco; dove la figura del prete aveva un ruolo sociale. Oggi questo non c’è più. Il terzo fattore, che può provocare disagio nel ministero del prete è il numero crescente di battezzati che richiedono pratiche religiose ma non vivono la fede cristiana, e quindi inevitabilmente che fanno venire al presbitero la sensazione di essere quasi inutile. Questo terzo fattore è quello che, a mio parere sta dietro a molte crisi esistenziali di sacerdoti. Io non ho mai creduto, posso sbagliarmi, che la crisi di un prete sia dovuta primariamente a una crisi affettiva. Ci sono casi in cui, certo, quest’ultimo è il motivo principale, ma io sono convinto che la crisi affettiva viene dopo che uno sperimenta una crisi di solitudine, soprattutto pastorale, cioè la sensazione di un ministero inefficace che non dice più niente a nessuno. Quando c’è questo, inevitabilmente poi il cuore è vuoto e questo cuore deve essere comunque colmato da qualcosa. Il sovraccarico di lavoro, il non saper più chi è il prete e cosa è chiamato a fare (crisi di identità); il clima desacralizzante che lo emargina sempre più (crisi di riconoscimento sociale); a questi fattori che possono determinare il primo ordine di crisi, che sono assolutamente inevitabili, Cencini risponde così. Il prete è oberato di lavoro? Ebbene questo è il suo primo e centrale ministero: dire Dio come la Buona notizia di oggi. Io, però, gli obietterei: attenzione, alla prima causa di disagio, cioè il sovraccarico di lavoro, la risposta deve essere anche strutturale, da parte di una diocesi; non basta dire soltanto “tu ti sei fatto prete per questo, di che ti lamenti?”. Il sovraccarico di lavoro c’è, è obiettivo e una diocesi deve dare risposte concrete. Ricordo che quando ero ausiliare a Napoli, più di un giovane prete, nominato parroco, veniva a lamentarsi: “io voglio fare il pastore, mi sono fatto prete per questo; per favore, toglietemi tutto ciò che attiene all’amministrazione, alla burocrazia della parrocchia; io voglio fare il pastore, voglio annunciare il Vangelo!”. E questi fatti stanno aumentando, nella mia esperienza. C’è qualche diocesi, nella quale già ci sono dei preti che hanno lasciato la parrocchia perché non volevano la gestione degli aspetti amministrativi e burocratici. Quindi, quello che dice Cencini, va preso con cautela, perché al sovraccarico di lavoro, anche se inevitabile, occorre dare una risposta a livello strutturale da parte della diocesi. Circa poi l’ultimo fattore, quello riguardante la inefficacia dell’azione pastorale, vorrei rispondere con un libro di un parroco tedesco Thomas Frings, dal titolo Così, non posso più fare il parroco, che vi consiglio di leggere ma non… da imitare. Egli ha lasciato la parrocchia in Germania ma non per ragioni affettive, né per difficoltà col suo vescovo, ma per ragioni attinenti al lavoro pastorale. Cioè praticamente al fatto che i fedeli chiedono i sacramenti ma non li vivono: pensate alla difficoltà di fissare, ad esempio, il giorno del catechismo. Già all’inizio dell’anno pastorale, fissare il giorno del catechismo diventa un’impresa. A queste difficoltà Cencini risponde così: è vero, ci sono questi motivi di disagio ma perché non approfittare di questo, che è inevitabile? Scusate questa parola, io insisto, questi motivi di crisi sono inevitabili ma perché non approfittare. Vivi la frustrazione di vedere il suo messaggio cadere nel vuoto di interesse, come fosse del tutto insignificante, è inevitabile. Ma è una provocazione salutare a tradurre quel messaggio con parole, immagini, simboli, parabole che siano fedeli a Dio e fedeli all’uomo. In pratica Cencini dice approfitta della crisi per aggiornarti, per rivedere il tuo linguaggio e il tuo metodo. Perché io credo che oggi ci sia da parte nostra una crisi soprattutto di metodo, di linguaggio. Io lo vedo con me, certe volte io mi sento lontano anni luce dal linguaggio, dalla mentalità, dalla cultura dei ragazzi, dei giovani d’oggi. Con questo facciamo fatica, non tocco il discorso delle omelie, stendo un velo pietoso. Non voglio essere come il Papa che ti bastona sempre, bastona anche noi vescovi, mal comune mezzo gaudio, su queste realtà concrete. Però è vero, certamente c’è una crisi di questo tipo ma vorrei fermarmi soprattutto sul secondo ordine, ho detto un triplice ordine di crisi, questi erano i tre motivi di disagio e così via… Sono convinto che la maggior parte delle possibili crisi dipendono dall’età del ministero. Mi rifaccio a Romano Guardini, leggete se non l’avete mai fatto in vita vostra il bel libro di Romano Guardini: Le età della vita, l’infanzia, l’adolescenza, giovinezza, maturità, l’età adulta e così via. Soprattutto mi riferisco, mi scusino i preti giovani, all’età di mezzo, età di mezzo significa la seconda età. Ricordo quando con il bravo Antonio Terracciano facevamo i programmi per anni di formazione permanente tanti anni fa e noi puntavamo sull’età del ministero in particolare le tre età del ministero, i primi anni, 5 o 10 anni, i preti giovani, l’accompagnamento dei sacerdoti nei primi anni a cui viene data molta attenzione nelle diocesi, Napoli è stata una delle prime. Ma c’è una seconda età del ministero ed è quella dopo, diciamo, più o meno dai dieci anni, che coincide, per chi viene ordinato in un tempo congruo, normale, tra i 40 e i 45 anni. Quella è un’età pericolosa ma è pericolosa pure nel matrimonio. Dopo i dieci anni, i 15 anni di ministero. E poi c’è la terza età del ministero, degli anziani, ammalati. Non me ne vogliano gli amici che fanno cinquant’anni, ecco più o meno quell’età lì. Io mi fermo sull’età di mezzo, i preti dell’età di mezzo, diciamo quelli dopo i dieci anni di ministero perché è un’età su cui si riflette poco eppure è un’età molto importante. Guardini la chiama “la crisi dell’età di mezzo”, è definita da lui come la crisi del limite. Quando diviene più acuta e consapevole la disillusione che la vita porta con sé. Non c’è più il senso della novità, della freschezza, ma quello del già visto, già sperimentato, dove la tentazione è quella dello scetticismo sprezzante o dell’ottimismo superficiale. Definisco in genere le età del ministero come le età dell’incanto, i primi anni, vuoi cambiare il mondo, quando vai in una parrocchia: adesso con me si cambia, le cose così… Io dico sempre ai giovani parroci: guarda, considera che c’è stato qualcuno prima di te e probabilmente ci sarà qualcuno anche dopo di te e tu sei soltanto un tratto della retta, un segmento. Après moi le déluge, diceva Luigi XV, dopo di me il diluvio. Riconsiderati meglio. Però la prima età è quella dell’incanto. Poi c’è la seconda età, su cui mi voglio fermare. L’età del disincanto, in cui uno sembra che abbia imparato già tutto, è disilluso… sembrava che, io credevo, noi speravamo… I discepoli di Emmaus, quando è triste quel verbo sperare coniugato al passato, noi speravamo, ma invece le cose sono diverse. Mi auguro che ci sia una terza età, dopo l’incanto o il disincanto, il re-incanto, quello innamorarsi di nuovo. Il rimprovero è che hai perduto il tuo amore di un tempo. Il Cardinale Martini, che è maestro in tutto questo, alla vigilia della sua morte, diceva pressappoco così: “quand’ero giovane volevo cambiare la Chiesa, il mondo, ecc.; poi, più avanti negli anni, sognavo una chiesa… alla fine, praticamente, nella vecchiaia adesso prego per la Chiesa, mi limito a pregare per la Chiesa”. Oppure quell’altra frase, non so di chi sia, che diceva: “all’inizio voglio cambiare il mondo poi dopo mi accontento di cambiare la mia comunità e alla fine mi impegno a cambiare me stesso”. Ma veniamo a questa, diciamo, idea. La crisi dell’età di mezzo che Guardini, ripeto, chiama anzitutto come crisi del limite, cioè della scoperta dei propri limiti, di non sentirsi più onnipotente. L’entusiasmo giovanile, ce lo auguriamo, non me ne vogliano i preti giovani, ho lasciato Napoli da dieci anni, parlo almeno per me, parlo per l’esperienza non solo ad Acerra. Certe volte ho l’impressione di non saper più distinguere se sono più innovativi i giovani o gli anziani, sono cose che andrebbero verificate sul campo e non invece a tavolino o per un libro. Torniamo alla crisi dell’età di mezzo. Guardini dice così sull’età della vita e quindi dell’età adulta. Lui parla in generale, non è che parla dei preti e dell’età del ministero, parla di età della vita in genere e ci riguarda anche perché pure noi facciamo i passaggi dall’infanzia, la crescita, giovani, adulti. Lui caratterizza così l’età adulta. 1. Ci sono tre o quattro caratteristiche: la scoperta dei propri limiti. 2. L’emergere di qualche stanchezza. Qui vedete che ognuno di questi meriterebbe di più. Papa Francesco dedicò un’omelia crismale di qualche anno fa sulla stanchezza dei preti. Diceva: c’è una stanchezza negativa e una stanchezza positiva. Voglio leggere Guardini: Mentre prima era viva la coscienza delle proprie risorse e nuove energie, ora si fa strada il senso del limite, compare la stanchezza. Si sente che sta diventando troppo, che si vorrebbe riposare, che si comincia a intaccare il capitale. E ciò si avverte specialmente nei momenti in cui il lavoro si accumula eccessivamente. 3. Lo svanire di molte illusioni, lo svanire delle illusioni. 4. Dalla novità dei primi anni da giovani si passa alla routine, la routine. Fare le cose per abitudine: due messe, tre la domenica se non quattro. La macchina che gira è sempre la stessa, si fa l’abitudine con le cose di Dio. È terribile. Io l’avverto pure su di me. Occorre reinventarsi. Pensate alla liturgia: passare nella stessa giornata da un matrimonio a un funerale, celebrare più messe con lo stesso registro. Questo produce inevitabilmente la routine, cioè il fare l’abitudine con le cose di Dio e infine lo svelamento della miseria dell’esistenza. Si incominciano a ricevere delusioni da parte di coloro nei quali si riponeva speranza. La generalità delle persone manifesta un’apatia e un’indifferenza, anzi una malevolenza di cui prima non ci si rendeva conto… Per questa età di mezzo vedete tra le mie mani il numero 8  di questa bella rivista Presbyteri, il titolo di questo numero è Preti dell’età di mezzo; è una bella rivista Presbyteri, ve la consiglio, è fatta veramente bene. Ebbene in questo numero dice la seconda età del ministero è quella del pieno impegno pastorale ma è anche quella del realismo. Il presbitero sta sperimentando il suo disincanto, forse nei primi anni pensava di cambiare il mondo o almeno la sua comunità, ma poi… forse ha fatto l’esperienza di un impegno pastorale generoso, nel quale si è buttato a capofitto, ma che non ha prodotto i frutti sperati. Signore, chi ha creduto alla nostra predicazione? Mi viene in mente, mi martella questa frase di Isaia: Signore, chi ha creduto alla nostra predicazione? Forse ha sperimentato una Chiesa estranea al mondo o un mondo che si allontana dalla Chiesa, forse ha fatto esperienza della comunione ecclesiale, la fraternità sacerdotale è solo un ideale, soprattutto in questa età, fa esperienza della fatica dei molti impegni e così via. Soprattutto fa esperienza degli scarsi risultati. E qui leggo un brano dal libro di Thomas Frings tradotto in italiano: Così, non posso più fare il parroco, il quale, a proposito dell’iniziazione cristiana, la cosiddetta prima comunione, sentite cosa dice: “Per 30 anni ho accompagnato in varie parrocchie la preparazione alla prima comunione e per oltre 25 volte, come primo responsabile, ho potuto sperimentare in prima persona un’evoluzione in questo campo. I modelli della preparazione, le catechesi sono cambiate, ma sostanzialmente tutto è rimasto identico. Possono passare il cielo e la terra, ma la prima comunione resta sempre la stessa. È rimasta la questione degli abiti da indossare non è influenzata da nessuna moda. Sono rimaste le date nell’anno liturgico, è rimasto anche il terzo anno per fare la prima comunione”. Quante discussioni: due anni, tre anni… Nel corso di questi trent’anni la costante più affidabile è stata purtroppo la diminuzione della partecipazione all’eucaristia domenicale ma già nell’anno successivo alla preparazione della prima comunione. È un giudizio certo un po’ impietoso, ma è difficile smentire questo giudizio. Un prete quando, dopo venti anni, l’età di mezzo, ahimè sperimenta purtroppo tutto questo è tentato fortemente non di lasciare, mi raccomando, ma certamente di dire ma quali sono… Io ricordo una celebrazione di un 25° in cui il parroco diceva alla sua gente: “sono stato in mezzo a voi per tanti anni, però permettetemi vi faccio rimprovero, mi avete chiesto di aiutarvi per la casa, per il lavoro per tante cose e io l’ho fatto, sono stato con voi, ma raramente mi avete chiesto facci conoscere la Parola di Dio, aiutaci a crescere nella fede”. Contate quante volte qualcuno è venuto a dirvi: mi insegni a pregare? Dobbiamo rispondere: no, qui facciamo i balli latino americani…. Vuoi essere insegnato a pregare? Vai ai Camaldoli, va’ dai monaci. Ecco, non siamo attrezzati un po’ per questa cosa, questa realtà. Ecco, la crisi dell’età di mezzo che, ripeto, può prendere. Cosa fare di fronte a questa crisi dell’età di mezzo? Ci sono due alternative. Guardini sull’età adulta dice: La prima alternativa è quella di essere scettici, falsamente ottimisti o la fuga nell’attivismo, l’attivismo che ci stordisce. Guardini è del secolo scorso. Se fosse vissuto oggi, forse avrebbe aggiunto le tante piccole fughe del nostro ministero. Permettete che ancora una volta attinga dalla mia lettera le tante fughe che possono avere molti volti, il ripiego sulla semplice gestione dell’esistente, faccio quello che devo, faccio quello che posso fare, mi limito a questo, il sistemarsi nel proprio piccolo mondo, la ripetizione di vecchi schemi rassicuranti. Quante volte usiamo i vecchi schemi rassicuranti, il rifugio nella sicurezza delle norme? Sto prendendo coscienza che aumentano i preti che vogliono le norme. Ci vogliono le norme, lungi da me, rispetto il diritto canonico. Ma credere che poi le norme risolvono tutto è un’illusione. La ricerca di ricette, le ricette semplificatrici: “dicci come si deve fare, non stare sulla teoria in astratto”, “dacci subito la ricetta per semplificare”. E Guardini oggi forse si riferirebbe anche all’autoreferenzialità e alla ricerca di protagonismo per un like in più, anche alla ricerca del protagonismo. Guardini dice: “una prima alternativa è questa, quella di assestarsi, diventare scettico”, si riduce a fare meccanicamente (sta parlando dell’uomo adulto in genere, non sta parlando dei preti) il minimo necessario proprio perché vi è costretto, dato che deve vivere. Si ostinerà pur in un ottimismo forzato, ma ha perso l’entusiasmo di un tempo. Lo stesso Guardini dice che c’è un’altra alternativa: “trasformare la crisi in opportunità”. Dice che si può fare un’altra scelta positiva, costruttiva, quella appunto, di una maggiore risolutezza nel riaffermare il proprio obiettivo. Io suggerirei, per quelli che vivono questa età di mezzo, ho detto della disillusione, perché il bivio è questo ridotto all’osso: o farsi fagocitare dalla routine di fare le solite cose; va avanti per forza di inerzia, lo fa pure bene quello che deve fare, ma ci crede poco, ormai, così deve andare, cadendo in una fatale rassegnazione e facendo scadere il ministero a burocrazia. Quante volte Papa Francesco bastona su questo punto: chierici di stato, usa talvolta questa espressione, burocrati. Oppure reinventarsi, ri-motivare il ministero. Non sarebbe male in questo momento di età di mezzo, soprattutto dell’insorgere di crisi di questo tipo, un semestre o un anno sabbatico, per rigenerarsi, però, che sia realmente vissuto bene. Insomma non deve essere un momento di riposo ma un periodo per rigenerarsi, per aggiornarsi e così via. Io suggerisco, come motivo di meditazione, in questa età di mezzo, in queste crisi dovute all’età di mezzo, suggerisco due testi biblici: il primo, lo stiamo riscoprendo sempre più alla luce della pandemia, è il libro del Qoelet. Farebbe bene a questi presbiteri dell’età di mezzo lo spirito disincantato dell’autore di questo testo biblico. Vanità delle vanità, tutto è vanità. Però, attenzione, non per limitarsi, appunto, a un disincanto e basta, non fare nulla ma con la consapevolezza. Il Papa dice dobbiamo sognare e dobbiamo sognare però con realismo, con i piedi a terra di chi sa le cose come sono ma non per questo si rassegna ma, appunto, va oltre. Ma io suggerirei un altro pezzo evangelico che mi ha sempre convinto e che spesso diventa per me un punto di riferimento: Marco 4, le parabole del seme, le tre parabole del seme. In genere ci fermiamo sulla prima, quella del buon seminatore che esce a seminare e trascuriamo la seconda e la terza. La seconda, l’agricoltore dorme o veglia il seme ha una potenza intrinseca. E la terza quella del granellino di senapa, quella del piccolo. Perché mi sto riferendo alle parabole del seme? Molti esegeti ritengono che Marco metta a quel punto le parabole del seme perché dopo la prima, non sono un esegeta, dopo la cosiddetta primavera galilaica, la stagione iniziale di Gesù, le folle ecc. c’è un momento di crisi, molti si allontanano perché la Parola, il Vangelo sembra non cambiare niente, Erode sta ancora lì, fa imprigionare Giovanni, lo decapita, lo uccide. Si aspettavano una parola che da un momento all’altro facesse piazza pulita. Sembra che tutto è come prima, il dubbio prende. Non dobbiamo avere timore di dirlo che prende lo stesso Giovanni Battista, che manda i discepoli a Gesù: Ma sei tu? Ma questa è una domanda terribile che attraversa la storia, a mio parere. Sei tu colui che deve venire o dobbiamo aspettarne un altro? Perché sembra che niente cambi. La risposta a questa crisi dopo la primavera galilaica sono le parabole del seme. Cioè Gesù dice: il seme è potente, ma la sua efficacia dipende anche, non solo, meno male, ma dipende anche dal terreno. Cioè se cade in un terreno non adatto il seme viene soffocato e non produce quello che deve produrre. La prima parabola mette l’accento sul terreno, però la seconda dice che il seme ha una sua potenza intrinseca, quindi a prescindere anche dalle condizioni… Forse le parabole del seme possono essere una risposta a queste crisi dei presbiteri nella seconda età, ma soprattutto è il tempo, la seconda età, per la cosiddetta seconda chiamata nel ministero. Cos’è questa seconda chiamata? Ha fatto riferimento a questo Papa Francesco nell’ultima omelia della messa crismale, ha parlato della seconda chiamata. Lui fa riferimento a René Voillaume. Il Papa, dico prima quello che ha detto il Papa, e poi voglio leggere qualcosa proprio di Voillaume, cioè su questa seconda chiamata, che ha un fondamento evangelico. Pietro ha la prima chiamata come tutti i discepoli e ha la seconda chiamata. Quali sono? La prima la conosciamo. Vi farò pescatori di uomini. Il primo incontro sulle rive del lago. Poi c’è tutto il Vangelo in mezzo, l’entusiasmo di Pietro, morirò, pure io morirò con te, l’entusiasmo al Tabor, facciamo tre tende e così via. Poi Pietro deve fare i conti con la sua fragilità, la sua debolezza, il rinnegamento. E finalmente viene la seconda chiamata. Qual è la seconda chiamata? Mi ami tu? Pasci le mie pecorelle. Vi farò pescatori di uomini. Pasci le mie pecorelle. Questa è la seconda chiamata. Questo è molto suggestivo in ognuno di noi. Nel nostro ministero c’è una prima chiamata e una seconda chiamata. La prima lo sappiamo quando viene, è quando siamo stati chiamati. Quella è la prima chiamata, col nostro entusiasmo di dire noi avremmo dato la vita per Gesù, avremmo voluto cambiare tante cose. E la seconda non so quando viene, però viene, viene certamente la chiamata, dopo aver attraversato, come Pietro ha attraversato tutto il suo cammino. Interessante, non ho tempo, il confronto perché la prima chiamata è sull’immagine del pescatore, la seconda invece è sul pastore. Pescatori e pastori, voi sapete che nella Parola si gioca molto su questo rapporto tra pescatori e pastori. Dopo che però Pietro lo ha rinnegato, ma di nuovo deve ripetere il suo amore per Gesù, questa volta purificato dalle sue fragilità e le sue debolezze. Tre volte, mi ami tu? Non ho il tempo di insistere, ma lo voi sapete bene, sul greco. Spero che i preti giovani ricordino bene il greco. Il testo greco è bellissimo, la nuova traduzione della CEI, grazie a Dio, riprende il greco, prima non lo riprendeva, metteva sempre la parola amore. Sì, Signore, tu sai che io ti amo, ma non è così. Voi sapete che il testo greco gioca sui due verbi dell’amore il verbo agapao e il verbo phileo. Gesù per le prime due volte usa agapao, agapas me? Mi ami tu? Ma Pietro non risponde con agape, risponde con phileo. Sì, Signore, tu sai che io ti voglio bene. E non è la stessa cosa, evidentemente. La terza volta Gesù si rassegna e usa pure lui phileo, non dice più agapas me, mi ami? Ma pure lui usa il verbo phileo, mi vuoi bene? Gesù avrà dovuto pensare, qua perdo tempo, mi accontento almeno del voler bene di Pietro, se aspetto che l’amore che io ho per lui è quello…usa pure lui phileo. Mi vuoi bene? Signore tu lo sai che ti voglio bene. Sentite il Papa. Il Papa dice così: “Noi abbiamo ricevuto una prima unzione, cominciata con una chiamata d’amore che ha rapito il cuore. Per essa abbiamo lasciato gli ormeggi e su quell’entusiasmo genuino è scesa la forza dello Spirito che ci ha consacrati”. Poi, secondo i tempi di Dio, ho detto la seconda chiamata non si sa quando viene, giunge per ciascuno la tappa pasquale (la chiama il Papa) che segna il momento della verità. È il momento della crisi che ha varie forme. A tutti, prima o poi, succede di sperimentare delusioni, fatiche, debolezze, con l’ideale che sembra usurarsi fra le esigenze del reale, mentre subentra una certa abitudinarietà e alcune prove prima difficili da immaginare, fanno apparire la fedeltà più scomoda rispetto a un tempo. Non leggo tutto il brano del Papa, lascio a voi, omelia del 6 aprile, l’omelia crismale, 6 aprile scorso. Ecco qui il grande rischio. Mentre restano intatte le apparenze, io sono un sacerdote, io sono prete ma ci si ripiega su di sé, si tira a campare. Come ci è familiare quest’espressione: si tira a campare, svogliati. La fragranza della prima unzione non profuma più la vita e il cuore si restringe, avvolto nel disincanto. E il sacerdozio lentamente va scivolando sul clericalismo. Cosa su cui lui insiste molto, come sappiamo. E il sacerdote si dimentica di essere pastore del popolo per diventare un chierico di stato. Ma questa crisi può diventare anche la svolta del sacerdozio, la tappa decisiva della vita spirituale in cui si deve effettuare l’ultima scelta tra Gesù e il mondo. Cosa dice Voillaume? Impossibile agli uomini, ma non a Dio, perché il rischio è questo, che si ritiene una cosa impossibile e la si lasci così perché è impossibile. Ma Gesù aggiunge, ricordate quando lo disse ai discepoli: questo è impossibile agli uomini, ma non a Dio. Quando si fa l’atto di fede, dice il Papa, che niente è impossibile a Dio, allora questo è il tempo per quella seconda chiamata. E lui dice, è il titolo di un classico di padre Voillaume, che tocca questo problema. Leggetelo, dice il Papa, lo dico pure io, è un contributo all’interno del libro La seconda chiamata, la seconda unzione. Si rivolge a quei fratelli, si sta rivolgendo ai suoi preti di Roma che sono in crisi, diciamo così, che sono disorientati, che non sanno come prendere la strada in questa seconda unzione dello spirito. A questi fratelli io li ho presenti, semplicemente dico: coraggio, il Signore è più grande delle tue debolezze, dei tuoi peccati, affidati al Signore, lasciati chiamare una seconda volta, questa volta con l’unzione dello Spirito Santo. La doppia vita non ti aiuterà. Buttare tutto dalla finestra nemmeno. Guarda avanti, lasciati carezzare per l’unzione dello Spirito Santo. Non buttare all’aria tutto. Qualche volta chi di noi non si è trovato nel consigliare un amico? Io dico sempre, dicevo e dico ancora ai preti: fatevi amici, non con la disonesta ricchezza, questo è chiara, ma fatevi amici, abbiate amici tra i preti, tre quattro cinque fraternità, possibilmente con tutti, ma amici. L’amico, gli amici sono quelli a cui ti rivolgi in momenti di difficoltà. La mia esperienza, 47 anni, mi dice che quando un prete ha fatto il deserto attorno a sé non ha amici, non ho nessun punto di riferimento, se viene la crisi è difficile che la superi, ma se ha amici con cui confrontarsi, che lo possono aiutare è facile che la superi perché è importante l’amicizia tra i preti, non di gelosia, non di riservatezza, ma l’amicizia è importante soprattutto per quando vengono certi momenti e c’è bisogno di accompagnare. Vi risparmio la lettura di Voillaume ma più o meno il Papa lo ha ripreso e anche abbastanza. La seconda chiamata, la chiamata di Pietro, la prima e la seconda. Però pensiamo a quello che sta in mezzo tra la prima e la seconda. Devi fare i conti con la tua fragilità, con la tua debolezza e alla fine preso dalla dall’esperienza fatta vengo a morire con te, Signore, vengo con te. Ecco, dopo, Pietro è riconsegnato a se stesso e riceve la seconda chiamata. Ho detto il triplice ordine di crisi. Primo ordine ho detto ha quei tre fattori: il sovraccarico di lavoro, la perdita di ruolo sociale e, soprattutto, di fronte ai fallimenti pastorali. Sia chiaro quando dico fallimenti pastorali, non voglio dire che è tutto fallimento, per carità, ognuno di noi potrebbe raccontare tante belle cose, stavo dicendo la parola successi. Ma la parola, la categoria del successo, non è una categoria evangelica, la categoria evangelica è la croce, sia chiaro. Però voglio dire ognuno di noi può raccontare tante belle cose. Io diffido quando uno racconta solo le brutte cose o quando racconta solo le belle cose. Ci vuole quello e quello, et et, mai aut aut, sempre le due realtà insieme. Ultimo ordine di crisi. E qui ci aiuta, lo sto riscoprendo sempre più, Giona. Peccato che devo dedicare solo alcuni minuti. Ma veramente la figura di Giona credo che sia attualissima nel nostro tempo e soprattutto per noi preti e vescovi che abbiamo molto spesso, io la chiamo, la sindrome di Giona. Qual è questa sindrome di Giona? È, diciamo, questo terzo ordine di crisi che può intervenire nel nostro ministero. La sintetizzo così: le crisi che vengono dalle nostre resistenze, noi facciamo resistenza a Dio, noi facciamo resistenza alla Sua Parola. Giona fa resistenza alla Parola di Dio. Conosciamo tutti un po’, Giona è il profeta, il giudeo, il simbolo, dicono gli studiosi, il simbolo del giudaismo nazionalista. Cosa voglio dire? E cioè che per lui Dio non deve salvare Ninive. Dio è solo nostro. Prima noi. Prima Israele, prima il nostro popolo. Dio si rivolge a una città pagana, ma non è possibile. La salvezza è solo di Israele e fa resistenza. Dio si cura dei marinai della nave dove lui sta a bordo. Si cura di Ninive al punto tale che, ricordate, la pianta di ricino che lo protegge dalla calura, Giona stravede per questa pianta di ricino, la coltiva, a un certo punto Dio la fa seccare. E lui dice: Signore, prendi la mia vita per una pianta di ricino. E il Signore gli dice: ma tu ti preoccupi per questa pianta di ricino e io non dovrei preoccuparmi per la città di Ninive dove ci stanno tanti…? Giona resiste, resiste al punto tale che fugge, prende la nave e fugge. Dove fugge? Dov’è Tarsis? Qui è probabilmente l’estremo Occidente, cioè la Spagna, o più o meno o la Sardegna. Ecco, lui sta in Mesopotamia nella piana di Ur dei Caldei, siamo in quella zona là. Fugge all’estremo opposto. Giona fugge da Dio. Ha dei problemi con Dio. Lui non accetta un Dio così e fugge. Non fa quella che il bravo Padre Beniamino, in una conversazione con i miei preti, qualche mese fa, sulla figura di Giona, chiama la conversione intellettuale. Deve venire, dice, prima della conversione morale, della conversione pastorale ci vuole la conversione intellettuale, cioè il cambiamento di mentalità. Giona non lo vuole fare, fugge da Dio. Alzati, va a Ninive. A noi dice alzati, va’ ad annunciare il Vangelo a questo mondo che si allontana sempre più. E noi diciamo no, sto bene nelle mie sicurezze, ho il mio piccolo gruppo, gruppetto, basta farci un fischio che subito vengono. Io devo andare a Ninive? Giona fugge, resiste. Le nostre resistenze, cari amici, cari fratelli. Quando le resistenze sono dovute a fattori purtroppo inevitabili, un prete di novant’anni è vecchio, non ce la fa più, è stanco, malato oppure altri tipi di resistenza, posso pure capire, è logico. Ma quando le resistenze le facciamo quando possiamo agire, sono resistenze di carattere appunto culturale, la conversione intellettuale, cioè non vogliamo né aggiornarci né formarci né capire questo mondo. Dio ha tanto amato il mondo, ma quale mondo, un mondo degli angeli ha amato Dio, dell’iperuranio? Questo mondo schifoso, il nostro ha amato Dio, questo è il mondo che Lui ha amato. E dunque lo sguardo sul mondo cosa vede? Il mondo, la parola mondo ha una duplice accezione nel linguaggio Giovanneo, mondo è ciò che si oppone al regno di Dio, il principe di questo mondo, non prego per il mondo, però il mondo ha pure un’accezione positiva, nel senso che è l’oggetto dell’amore di Dio. Dio ha tanto amato il mondo. Quando si ha uno sguardo verso il mondo negativo e si dice tutto è storto, ormai non ci possiamo fare più niente, siamo gli ultimi; qualcuno ha detto noi siamo gli ultimi cristiani. Fanno pure le statistiche. Nel 2030 non ci si sposa più in chiesa, oppure nel 2050 e così via, l’Occidente… C’è un libro del bravo Thomas Halik, teologo, leggetevi i testi, gli articoli, di questo teologo cecoslovacco. Durante la pandemia ha scritto un libro molto interessante: Le chiese vuote, che per lui potrebbero essere il segno di un domani. Per quando noi nella pandemia ci mettevamo pure i ritratti, le fotografie sui banchi, erano vuote le chiese. Ha scritto ultimamente, qualche mese fa, un libro ancora più drammatico: Il tramonto del cristianesimo. Poi mentre dice il tramonto del cristianesimo però dice il tramonto nell’immaginario della Bibbia e della liturgia, il tramonto sono i primi vespri. E allora non è il tramonto della giornata soltanto, ma è l’inizio del giorno che viene dopo. Si aggiusta un po’. Il tramonto del cristianesimo, come un bel dipinto che sta in Abruzzo, che raffigura, Francesco di Montereale credo sia l’autore, la crocifissione, però stranamente sullo sfondo della crocifissione non ci sono le tenebre, non c’è oscurità, c’è il chiarore. Tu vuoi leggerlo come vuoi. È il chiarore del tramonto? Quindi con Gesù crocifisso è tutto finito? O è il chiarore dell’alba? E cioè tutto inizia da quella realtà? Torniamo a Giona e chiudiamo. Giona ha un problema con Dio, non accetta…. Poi ci andrà, ci andrà pure a Ninive ma lo fa a malavoglia e lo fa convinto che i niniviti non lo ascolteranno, tanto è vero, vi ricordate quel particolare, molto carino, che una volta che ha predicato a Ninive, cosa fa Giona? Si mette sulla collinetta di fronte a Ninive e sta là perché aspetta che Ninive sia distrutta, perché i Niniviti non si convertiranno. Lui è convinto di questo. Ma, ahimè, i Niniviti si convertono. “Questo non stava nel programma di Internet?” Non si dovevano convertire. E invece si convertono. E allora rimane male Giona. E alla fine il libro di Giona, chiuso. Voi sapete, la conclusione è aperta, come molte pagine bibliche non hanno una conclusione. Una per tutte, famosa, la pagina del padre misericordioso e dei due fratelli. Prima torna quello, poi il padre esce di nuovo, esce due volte il padre, prima per quello e poi per l’altro. Prova a convincerlo: ma come tuo fratello è tornato… Quello dice no, tuo figlio. La sfumatura interessante, non mio fratello, tuo figlio! Mi fa ricordare nelle nostre famiglie, quando un figlio si comporta bene il padre dice è figlio a me, quando non si comporta bene dice alla moglie, tuo figlio, vedi che ha fatto tuo figlio. Prima è figlio a me, però dopo non è più figlio a me. Come si conclude la parabola del padre misericordioso? C’è una conclusione? Non ce l’ha. Noi non sappiamo come è andata a finire. Se il fratello maggiore rientra e torna a casa. Pure con Giona è così. Il libro di Giona si chiude, ma noi non sappiamo se Giona si è convertito, perché il problema è Giona. Noi diciamo andare a convertire i niniviti, ma probabilmente la finalità del libro di Giona e convertire Giona. Come un bel libro di qualche anno fa di Sergio Lanza, adesso è morto, era un pastoralista, un biblista, stava alla Lateranense, scisse un bel libro: La conversione di Giona. Voglio chiudere con un punto interrogativo. Dio non è riuscito a convertire Giona, riuscirà a convertire noi preti e noi vescovi? Giona non l’ha convertito, perché il libro di Giona si chiude senza una conclusione. Il mio augurio e la preghiera per noi, per voi, per me è che ci convertiamo. E allora il terzo ordine di crisi, viene da queste resistenze, il terzo ordine di crisi sono quelle malattie spirituali, le cito solo, lungi da me ad entrarci dentro, le lascio al Papa, sono le tre malattie. Il Papa poi ci va sotto quando fa gli auguri alla Curia romana, adesso è più dolce, ma fino a qualche anno fa il Papa quando faceva gli auguri natalizi alla Curia, fece una sfilza di 14 malattie della Curia. Le malattie che dice spesso per noi preti e vescovi, vi ricordate, le cito, la mondanità spirituale, una sorta di immobilismo, Giona, stare nelle proprie sicurezze e non voler cambiare. Adesso le dice Papa Francesco ma questo è il Concilio questo è Evangelizzazione e Sacramenti, Rinnovamento della catechesi e tutto il cammino che ha fatto la Chiesa italiana in questi 50-70 anni. Poi lui che è argentino, forse sa pure del cammino della chiesa italiana però non è che l’ha vissuto e allora l’ha ripreso. Questo è il cammino che abbiamo fatto da cinquant’anni e oltre, uno per tutti Rinnovamento della catechesi. Sono cose che vengono da lontano. Non uscire dalle proprie sicurezze, la mondanità spirituale. L’accidia egoistica. Ho fatto una serie di catechesi in video, due anni fa, sui sette vizi capitali, sempre più attuali. Sono quelle pagine del catechismo della Chiesa cattolica che abbiamo tralasciato, i sette vizi capitali, le opere di misericordia corporali e spirituali, i cinque precetti della Chiesa, messi da parte e gli altri se li prendono. Quando ho dovuto preparare le catechesi sui sette vizi capitali e ho dovuto informarmi c’era un solo libro di un autore cattolico, il cardinale Ravasi, che ha scritto un bel libro sui sette vizi capitali. Ma sapete io dove ho preso ispirazione per le mie catechesi sui sette vizi capitali? Dai filosofi laici, spesso agnostici, atei, Galiberti ecc. Noi li abbiamo lasciati e loro se li sono presi e li hanno rilanciati, certo in un’ottica laica, però attingendo al nostro patrimonio sui sette vizi capitali. Noi lasciamo il confessionale e a confessare e se li prende Barbara D’Urso oppure qualche altra realtà nei loro salotti e così via. Noi lasciamo il digiuno e se lo prende la buonanima di Pannella, che speriamo adesso stia nella gloria. Faceva continui digiuni per ragioni di protesta. L’accidia è uno dei sette vizi capitali. Poi ci volevano gli osservatori socio-religiosi che usavano il politicamente corretto inglese burn out, che è l’accidia, cioè quello stato interiore di rilassatezza, di pigrizia, di svogliatezza. Tu continui a fare pure le cose di sempre, le fai, magari le fai pure bene ma non ci credi più, le fai perché le devi fare. Questa è l’accidia. I padri del deserto lo chiamavano il demone di mezzogiorno. Immaginate il 15 agosto a mezzogiorno. Il demone di mezzogiorno, il sole che picchia. Come dice il Papa, il divano, l’oggetto più pericoloso della casa. Spero che non sia esperienza nostra, il divano, il gettarsi sul divano, sdraiati. Michele Serra che sembra sia uno che vada per la maggiore sulla condizione giovanile, è un autore che parla dei giovani, scrisse 4 o 5 anni fa un libro sui giovani, lessi due-tre pagine poi subito chiusi perché era proprio deprimente; già dal titolo, li individuava come Gli sdraiati. Ricordo un amico mio tanti anni fa diceva Antonio questa mattina mi sono svegliato proprio così mi scoccio di tutto, non voglio fare niente, mi scoccio anche di scocciarmi. L’immagine completa dell’accidia. Accidia egoistica, dice il Papa. La terza, e finiamo, è il pessimismo sterile o nella sua forma parallela, che usa sempre il Papa, il chiacchiericcio. Io spesso uso il latino ecclesiae murmurans. Dio ci guardi e liberi dalla mondanità spirituale, dall’accidia egoistica e dal pessimismo sterile. Prendiamo esempio dai 25enni e i 50enni per dire, dice Agostino, Si isti et istae, cur non ego? Grazie che stanno qui stamattina perché ci servono da incoraggiamento. Se quello e quello allora pure io posso farcela e attraversare le crisi del ministero e saperla gestire bene. Non vi auguro di non avere crisi ma di saperle gestire per tramutarle come occasioni. Pure nella crisi ricordo tanti amici e fratelli che ho accompagnato nel mio ministero e ringrazio Dio di questo, quando c’è una crisi affettiva in cui sembra lì per lì che si lasci il ministero, io ho sempre creduto, posso sbagliarmi, che chi vive momenti del genere li deve vivere fino in fondo, certo accompagnato, sostenuto, sia chiaro, non vorrei essere frainteso, però non deve mai rompere sul momento. Quando stai nel pallone proprio quello è il momento in cui non devi prendere decisioni, qualsiasi esse siano. Ci devi stare dentro. Devi vivere fino alla fine senza chiuderti, sostenuto, aiutato ma devi attraversare la crisi, fino in fondo, cercando sostegno e aiuto per andare avanti.