114 pellegrinaggio a Pompei

Omelia del Vescovo

In queste domeniche stiamo ascoltando il Vangelo secondo Matteo, che ci sta dicendo come comportarsi da cristiani di fronte alle colpe, alle offese ricevute, alle ingiustizie.

La comunità cristiana registra al suo interno i peccatori: «Se tuo fratello commette una colpa contro di te … », abbiamo sentito domenica scorsa l’invito di Gesù alla correzione fraterna.

Oggi, in questa domenica, il discorso continua sulla stessa linea, e abbiamo ascoltato dal Vangelo la parola di Gesù sulla necessità del perdono: «Quante volte dovrò perdonare al mio fratello?», chiede Pietro: «Sette volte?». Gesù gli risponde: «Non sette volte, ma settanta volte sette». Cioè sempre!

Lo so, lo sappiamo: è difficile parlare di perdono, e dico che non se ne può parlare alla leggera! Il perdono è una cosa seria, e perdono non significa indifferenza di fronte al male, di fronte alle ingiustizie, anzi!

Però dobbiamo mettere insieme questi due principi: da una parte il principio della giustizia, che deve sempre prevalere di fronte a chi commette colpe, reati, ingiustizie; ma dall’altra parte non possiamo negare, anzi, il principio evangelico del perdono. Non solo in questa parabola, che abbiamo ascoltato e che si conclude con quelle parole di Gesù: «Così il Padre vostro celeste farà a voi, se non perdonerete di cuore al vostro fratello», che richiama quella parola del Padre Nostro che tra poco reciteremo insieme, quando rivolgendoci al Padre diremo: «Rimetti a noi i nostri debiti, come anche noi li rimettiamo ai nostri debitori»; e Gesù stesso, sulla Croce, dice come una delle sue ultime parole: «Padre, perdona loro perché non sanno quello che fanno».

Come mettere insieme questi due principi, che sembrano contrapposti: da una parte la necessità che la giustizia faccia sempre il suo corso, e dall’altra parte la parola evangelica sul perdono? Perché bisogna perdonare?

Sono due i motivi fondamentali che la parola di Dio ci offre stamattina per motivare il perdono!

Il primo è la bella Parola della Prima lettura tratta dal libro del Siracide: «Ricordati della tua morte, ricordati che tu finirai, e smetti di odiare!». Se pensassimo di più alla nostra fine, se pensassimo di più che siamo mortali, come l’erba del campo che al mattino fiorisce e alla sera è avvizzita e viene gettata nel forno, dice il Vangelo; se pensassimo di più a questa tremenda e grande verità: che noi siamo limitati, mortali; se pensassimo di più alla nostra morte, forse saremmo più capaci di perdonare, saremmo più capaci di non odiare, di non fare ritorsione, di non rimettere male per male. Ma il fatto è che noi non pensiamo alla morte, rifuggiamo il pensiero della morte, ci crediamo padreterni, e per sentirci tali, rifuggiamo pure dal perdonare agli altri!

Il secondo motivo, molto più forte, viene dal Vangelo, dalla parabola che abbiamo, quell dei due debitori.  Colpisce in essa – e deve colpirci, voglio invitare me e voi a lasciarci colpire come un pugno nello stomaco – la sproporzione dei due debiti: uno deve al suo padrone diecimila talenti, si tratta di una cifra iperbolica, assurda, volutamente esagerata, non bastava una vita per colmare questo debito, che rimane insolubile, non si potrà mai risolvere, la cifra enorme di diecimila talenti non si può nemmeno tradurre nella nostra moneta, l’Euro, e questo significa che quel debitore non avrebbe mai potuto pagare il suo debito, e fa sorridere la sua giustificazione, quando dice: «Abbi pazienza, te lo pagherò poco alla volta» al padrone, il quale sa bene che quel venditore non potrà mai e poi mai pagare quel debito insolubile, eppure glielo condona, glielo cancella; e poi l’altro debito: quando esce fuori l’uomo a cui è stato condonato il debito insolubile incontra un suo compagno, che gli deve appena cento denari!

Ecco la sproporzione, cari amici: diecimila talenti, un debito enorme, e cento denari! Cosa sono cento denari? Forse tradotti saranno cento euro! Eppure quest’ultimo è inflessibile: fa mandare in prigione del compagno che gli deve appena cento denari, mentre lui ha avuto il condono di un debito insolubile.

Cari amici, qui c’è il punto della parabola e qui è il messaggio di questa domenica. Verso Dio lui abbiamo un debito immenso, ogni nostro offesa a Lui è di una gravità immensa, verso il Signore noi siamo in debito, e di un debito che non possiamo mai pagare. Noi siamo peccatori perdonati, e questa è la Chiesa, questa è la comunità non dei santi, non di perfetti, non degli infallibili,  ma la comunità dei peccatori perdonati. Abbiamo bisogno mille volte al giorno del perdono di Dio: «Il giusto – dice la Bibbia – pecca sette volte al giorno», figuriamoci chi non è giusto. Noi abbiamo verso di Lui un debito insolubile, e se non fosse per la sua misericordia, noi saremmo perduti, come recita la supplica alla Madonna di Pompei.

Oggi purtroppo, noi abbiamo perso la coscienza della gravità del nostro peccato, e questa mancanza è alla base della difficoltà di perdonare agli altri: se noi fossimo veramente consapevoli del debito enorme che abbiamo verso Dio, e che Lui ci cancella, certamente saremmo più disposti a perdonare agli altri, per le offese che ci fanno! Cosa sono le offese degli altri, le ingiustizie che essi fanno verso di noi, di fronte ai gravi peccati che noi commettiamo verso il Signore, e che Lui ci rimette, ci cancella e ci perdona?

Ma il fatto è che noi non siamo consapevoli di questo debito enorme verso Dio, e perciò siamo inflessibili, chiusi, rigidi, verso i fratelli che ci offendono. In noi si nasconde, sotto sotto, una situazione che la psicologia chiama schizofrenica. Cos’è la schizofrenia? Da una parte imbocchiamo la Misericordia di Dio per noi, la vogliamo, Dio dovrebbe essere sempre pronto a perdonarci, a capire e comprendere la nostra miseria, la nostra debolezza; dall’altra parte però, invochiamo da Dio stesso che condanni quanti ai nostri occhi appaiono ingiusti, disonesti e peccatori.

Insomma, ecco la schizofrenia: la misericordia dovrebbe avere due parametri, uno per venire incontro a noi, e un altro per gli altri. E questa si chiama schizofrenia! Misericordioso verso di noi, chiediamo al Signore, ma non verso gli altri! Due parametri, due misure diverse. Avere il perdono, ho detto prima, non è essere indifferenti di fronte al male, all’ingiustizia. Non è questo il problema: anzi, bisogna combattere il male, bisogna combattere le ingiustizie, mai essere indifferenti, conviventi con l’ingiustizia.

No, il problema piuttosto è un altro: è come agire nei confronti del male, dell’ingiustizia. Il Vangelo dice di perdonare, e cioè dice no alla ritorsione, cioè rendere male per male, quella legge antica che era la legge del taglione, che diceva «occhio per occhio, dente per dente». Uno scrittore simpaticamente ha detto: «Se nel mondo vigesse questa legge – la legge del taglione “occhio per occhio, dente per dente” – saremmo già tutti sdentati».

E’ vero! Ma il Vangelo dice di dare all’altro che ha sbagliato, che è mio fratello, anche se è nemico, un’altra possibilità, il perdono che spezza la spirale del male: se io rispondo al male con il male, la catena non finisce più, rispondere col perdono – anche nella sofferenza, perché chi perdona soffre, non dimentica – spezza la catena dell’odio. La vendetta è disarmata dal perdono!

Siamo qui venuti dalla Madonna di Pompei. Lei è stata concepita senza peccato originale, eppure Lei, che non ha peccato, nella sua preghiera “Il Magnificat”, loda la Misericordia di Dio, è consapevole di dovere Lei tutto a Dio,  si sente anche Lei debitrice verso Dio: Lei, che non ha peccato, figuriamoci noi!

Siamo qui venuti da Acerra nel 114 esimo anno del pellegrinaggio dalla fondazione della Società Cattolica Agricola del Sacro Cuore di Gesù, istituita nel 1906. Ogni anno gli organizzatori vogliono questo momento: li ringrazio, lo hanno spostato da maggio a settembre, pur con tutte le prescrizioni che ci vengono chieste per ragioni sanitarie.

E questo pellegrinaggio è dedicato quest’anno – come diceva già il prelato, il caro fratello Tommaso, che ringrazio delle sue parole – al Beato Bartolo Longo, Apostolo del Santo Rosario, testimone di Carità, di Fede e di Accoglienza Cristiana. Oggi, a 40 anni da quando è stato proclamato Beato.

Il pellegrinaggio di quest’anno è dedicato al Beato Bartolo Longo, che fu di esempio per gli agricoltori e i fedeli della Diocesi di Acerra, e per i padri fondatori della Società Cattolica Agricola del Sacro Cuore. I padri fondatori di questa società agricola – li ricordiamo: Francesco d’Amore, Lorenzo Aiardi e Mauro D’inverno, che il vescovo Monsignor Nicola Capasso, mio predecessore, designava come Apostoli dei contadini, degli operai e degli agricoltori cattolici di Acerra. Soprattutto, uno di loro, Francesco d’Amore, una figura molto interessante, che andrebbe approfondita, dotto, acculturato, istitutore del Real Collegio e redattore dello Statuto della fondazione della Società Cattolica Agricola del Sacro Cuore di Gesù.

D’amore apparteneva a una famiglia nobile, ma poi caduta in disgrazia, e il suo fine, dice Monsignor Capasso, era quello di «imitare Gesù operaio nell’oscura Bottega di Nazareth, e rendersi simile a quei braccianti che egli voleva evangelizzare».

Ha un rapporto molto stretto con il Beato Bartolo Longo a Pompei, e si rifanno entrambi, questo è molto importante, alle encicliche sociali della Chiesa, e in particolare alla prima enciclica sociale, la Rerum Novarum di Leone XIII nel 1891: da quella enciclica sono poi venute altre nella storia. Molti cattolici ignorano questo patrimonio importante: la Dottrina Sociale della Chiesa! Ultimo, in ordine di tempo, di questi documenti della Dottrina Sociale della Chiesa è la Laudato si’, di cui ricordiamo i 5 anni, e per l’anniversario doveva venire da serra Papa Francesco nel quinto anniversario della sua enciclica sulla terra, sulla custodia della casa comune, dell’ambiente del creato: il Papa ha promesso che verrà, credo appena finisca questa pandemia.

Ebbene, da quella Rerum Novarum, 1891, di Papa Leone XIII, il nostro D’Amore volle realizzare e concretizzare quelle indicazioni sociali contenute nell’enciclica per i contadini di Acerra; D’Amore spinse i contadini a Acerra a lavorare in tal senso e insieme con il Beato Bartolo Longo, con l’assistenza agli orfani, ai figli dei carcerati, con l’evangelizzazione e l’istruzione alla pratica di mestieri, di artigiani, ancora oggi molti moggi di terreno a reddito dell’agro acerrano risultano intestati al Santuario di Pompei.

D’amore morì nel 1921, il vescovo Capasso dice così di lui: «Quando morì il D’Amore fu come un lutto cittadino, una fiumana di popolo ne seguiva la salma, rimpiangendo il benefattore, l’apostolo dei braccianti agricoli». E di questi padri fondatori, lo stesso Capasso ebbe a dire: «Questi operai, robusti come querce, ferventi come asceti, intrepidi come apostoli, siano di esempio, protezione per i lavori, i lavoratori, per i contadini, perché non si lascino sviare da lauti miraggi». E questo almeno ottanta anni fa, se non oltre!

La Società Cattolica Agricola sproni i nostri contadini. I frutti della Terra: abbiamo inferto alla alla nostra madre Terra una ferita terribile, mai abbiamo maltrattato la Terra come negli ultimi decenni, una ferita durissima ha subito quella Terra che San Francesco nel Cantico delle Creature chiama Madre: «Laudato si’ mi Signore per nostra Madre Terra che ci sustenta e ci governa con i frutti, i fiori ed erbe». Un nostro concittadino, qualche anno fa, scrivendo un articolo per un giornale, dal titolo “Come eravamo”, fa un po’ una cronaca di come si viveva ad Acerra quando essa era una città tutta agricola, non ve lo leggo, perché è lungo, traggo solo un pezzo da questo articolo, dice così Mimmo Chiariello: «Allora l’amore per la Terra era assai diffuso, viscerale, quando ero un ragazzino abitavo in campagna e mio padre al mattino quando poteva faceva sempre un giro per la sua terra: “La terra vuole il padrone sette volte al giorno”. L’atteggiamento con cui si poneva verso di essa era di tipo filiale, da figlio a madre, di rispetto, la osservava per capirne i bisogni, le necessità, la Madre Terra veniva curata, mai violentata. I nostri problemi sono iniziati quando abbiamo girato le spalle ad essa, quando abbiamo pensato che il nostro benessere fosse altrove, come se dalla terra ne venisse solo un ricavo economico per chi lavora, e non un sostentamento alimentare per tutti. Con gli anni ’70, le nuove generazioni hanno trovato lavoro in altri ambiti, e la campagna passò in secondo piano, l’amore per la terra andava scemando. E chi rimase a coltivarla veniva considerato una sorta di sconfitto, di uno che non ce l’ha fatta, e su di essa calò una sorta di oblio. E così, mentre eravamo distratti da altri interessi, sulle nostre terre si sono sviluppate un altro genere di sanguisughe, più grandi e affamate, mai sazie, che hanno succhiato alla nostra terra il sangue, la linfa, la salute. Noi tuttu siamo corresponsabili per mancata sorveglianza, per il disastro che  è stato perpetrato».

Quanti debiti, per usare in conclusione la stessa immagine del Vangelo di oggi, noi abbiamo verso di Lei, la Madre Terra. Ci perdonerà, la Terra? Queste ferite che le abbiamo inferto e che hanno portato malattie e morti, soprattutto di ragazzi e di giovani? Ci condonerà la Terra questi debiti? Un antico proverbio latino americano, purtroppo, dice così: «Dio perdona sempre, l’uomo qualche volta, la natura non perdona mai!».

Vorrei smentire questo proverbio, non tutto è perduto, la Madre Terra, come il Padre che è nei cieli, ci offre ancora una volta un’altra possibilità. Dobbiamo coglierla, prima che sia troppo tardi! Non tutto è perduto!

In questa occasione del pellegrinaggio di Pompei, in nome dei padri fondatori della Società Cattolica Agricola del Sacro Cuore, rinnovo l’appello rivolto ai fedeli della Diocesi di Acerra, a tutti i fedeli delle sei città della Diocesi nell’omelia dell’Assunta il 14 agosto, ad essere uomini e donne liberi, a non farsi condizionare, a non temere ritorsioni o vendette, a non esprimere il voto elettorale ormai prossimo per interessi personali, per paura di ritorsioni; l’invito – lo dico espressamente, perché il vescovo deve educare, il vescovo no fa politica, ma deve parlare, deve educare, è sentinella, e se la sentinella non parla è connivente con il male – l’invito a sostenere quelli che veramente si impegnano per la difesa dell’ambiente, del creato, per la difesa della Terra, l’impegno a sostenere quelli che mettono nei loro programmi al primo posto, o tra le prime priorità, l’impegno a contrastare l’inquinamento ambientale, quell’inquinamento ambientale che è causa di malattie e morti, soprattutto di ragazzi e di giovani!

So che qui presenti, e stanno proprio attorno all’altare, ci sono le mamme, le mamme coraggio, le mamme di bambini e di ragazzi che da noi, ad Acerra, sono malati di cancro, vittime dell’inquinamento ambientale: massimo di sette mesi, Roberto, due anni, Giuseppe, quattro anni, Rosanna, quattro anni, e poi Filomena, Gaetana, Anna, Giuseppe, Ivan, Gaetano, Mariagrazia, Vincenzo, Valentino.

Facciamolo per loro, la Terra, la Madre Terra, ci offre ancora una possibilità, non la sprechiamo!